«Andiamo oltre»

Contrapposizioni ideologiche, polemiche, prese di posizione. I fatti della Sapienza hanno fatto discutere e continuano a fare discutere l’intera Italia. Ma cosa può fare l’Università se non dibattere e approfondire i temi, allontanando la brutalità con cui qualcuno cerca di strumentalizzare quanto accaduto a Roma? Così abbiamo messo a confronto l’opinione di un laico e di un religioso, Antonio Pioletti e Don Giuseppe Ruggieri, teologo e rettore della chiesa di S. Nicolò l’Arena.

E’ stato opportuno l’invito del rettore della Sapienza al Papa?
Don Ruggieri:
«Anch’io ritengo incongruo l’invito al Papa a tenere la lectio magistralis all’inaugurazione dell’anno accademico della Sapienza. Le inaugurazioni dell’anno accademico oggi costituiscono momenti puramente rituali di autocelebrazione del potere accademico, spesso contestati. Per quanto riguarda la motivazione peculiare che adducono i docenti di fisica, io non sarei totalmente d’accordo. E’ una frase estrapolata dal contesto, quella su Galileo. Non credo che tradisca le effettive posizioni di Ratzinger sul problema Galileo, mentre ciò che suscita più discussione – come era emerso dopo la lezione che papa Ratzinger aveva tenuto nella sua vecchia Università di Regensburg – è la sua valutazione globale dell’evoluzione della scienza e della ideologia che presiede l’evoluzione della scienza in tempi moderni. Questo è un effettivo oggetto di dibattito e su questo forse si sarebbe dovuto istaurare un dialogo e un confronto».

Pioletti: «Condivido quanto detto da Don Ruggieri. Credo che in questi giorni si sia sviluppato uno scontro molto demagogico, da più parti, che rischia di portarci ad una forte regressione culturale, politica e ideologica, rispetto alla grande questione del dialogo tra credenti e non credenti, alla grande questione del bisogno di credere e del sacro, che non si identifica unicamente con la Chiesa cattolica. Su queste questioni sembra che si sia regrediti ad un livello cavernicolo. A tutto ciò sento di dire: no, non ci sto a questa regressione; non è questo il livello. Rispetto a quello che è avvenuto, credo che ci sia dietro una notevole operazione mediatica, ideologica nel senso di falsa coscienza. Dai racconti di alcuni presidi della Sapienza che conosco mi sembra che i fatti siano stati molto distorti. Il documento dei famosi 67 (i docenti che hanno scritto al rettore della Sapienza, ndr) era un documento di metà novembre. Mi risulta che dopo questa presa di posizione si era cambiato qualcosa nel cerimoniale, cioè il Papa non avrebbe più fatto la lectio magistralis. Mi risulta anche che gli stessi 67 fossero entrati in dialogo rispetto a queste questioni. Io, solo oggi, ho deciso di firmare il documento di solidarietà ai 67, che pur ritengo riduttivo. In un primo momento avevo deciso di non firmarlo proprio perché non credevo che in questo caso il problema fosse firmare un appello. Successivamente ho invece deciso di firmarlo perché si è creata una caccia sbagliata e assurda a quei 67. Anche perché i 67 non hanno mai detto che bisognasse vietare l’ingresso del Papa all’Università. Si sono limitati a dire una cosa che io condivido e che prima diceva don Pino, e cioè che è del tutto incongruo invitare il Papa, o un’altra autorità religiosa o politica a tenere la lectio magistralis all’Università. Che non vuol dire non invitare il Papa».
«Paolo VI c’è stato all’Università. Così come Giovanni Paolo II che è stato contestato e che ha risposto alle contestazioni in modo ironico e quasi festoso. Il Papa attuale, non voglio entrare nel merito, ha deciso di non andare. Però probabilmente se fosse andato non sarebbe successo nulla di particolarmente grave. Allora occorre spostarsi su un altro terreno, approfondire le questioni che meritano di essere approfondite. Sulla politica che sta seguendo la Chiesa, la mia modesta opinione, e lo dimostra anche l’intervento di Bagnasco dell’altro giorno, è che la Chiesa ha preso da un po’ di tempo a questa parte un andazzo di pesante interferenza relativa all’organizzazione delle leggi dello Stato. Il che non vuol dire che la Chiesa non si possa esprimere, guai se non lo facesse, ma fino ad arrivare quasi a dire quali debbano essere gli emendamenti ce ne corre. E’ mia opinione che anche sul piano dottrinale e teologico ci sia un dibattito aperto al’interno della Chiesa, che mi interessa molto: uno dei punti fondamentali è il rapporto tra ragione e fede, su cui il Papa s’è pronunciato a Ratisbona e nell’ultima enciclica».

Dunque c’è stato un cortocircuito di intolleranze reciproche e di mosse e strategie sbagliate da tutte le parti?
Ruggieri: «Credo che la questione vada impostata a monte. Soprattutto a partire da un certo momento del pontificato di Papa Woityla (sostanzialmente coincidente con la crisi della prima Repubblica e il frantumarsi dell’unità politica dei cattolici) è mutato abbastanza fortemente l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della società italiana. C’è stata in qualche modo una convergenza di interessi ed eterogeneità di fini, da un lato da parte di alcune forze politiche orientate in senso conservatore, e dall’altra parte di un certo settore della gerarchia cattolica che ha voluto politicizzare la presenza diretta – senza le mediazioni di un partito – della Chiesa nella società italiana. Alla luce di questo fatto, che è un fatto di medio periodo, io credo che bisogna collocare quello che è avvenuto. Cosa è mancato da parte della Chiesa? E’ venuto a mancare quello che Pioletti ricordava poco fa, l’approccio pastorale al problema. Un qualsiasi parroco, di fronte a ragazzi che lo contestano, non sta in silenzio, non li lascia soli, cerca di incontrarli e parlare con loro. Forse qui è mancato l’approccio pastorale del problema che a un personaggio come Woityla avrebbe fatto dire “io voglio parlare con questi ragazzi che mi contestano”. E lì esporre le proprie posizioni, intendersi e rispettarsi e confrontarsi. Invece la contestazione di una parte degli studenti è stata gestita in un clima di confronto ideologico e politico. Il card. Bagnasco, con una interpretazione smentita dal governo italiano, ha detto che la responsabilità della non venuta del Papa è da addebitarsi al governo che avrebbe sconsigliato al pontefice di venire. Io non so rispondere alla questione perché non sono abbastanza informato. Ma, al di là dei particolari che mi sono sconosciuti, avverto in tutto questo qualcosa di sbagliato. La Chiesa deve accettare di essere contestata, ma al tempo stesso deve entrare in dialogo con chi la contesta, nel confronto diretto e non attraverso muscolose manifestazioni di massa deve esporre le proprie ragioni con pacatezza, non monoliticamente, ma facendo altresì emergere la pluralità delle posizioni al suo interno. Un altro dei fatti più gravi che io noto in questa vicenda è la scomparsa della Chiesa plurale e gioiosa che i decenni del postconcilio ci avevano consegnato. Nell’opinione pubblica e nei mass media, la Chiesa è sempre più ridotta ai suoi vertici e alle loro condanne di tutte le perversioni possibili della società. Il Papa svolge un ministero importante e essenziale nella vita della Chiesa ma non è la Chiesa, e non può dire scimmiottando Luigi XIV, “la Chiesa sono io”. Il Papa è nella Chiesa con una sua missione, importante, ma non tutte le posizioni anche dottrinali si riconducono a quella che il Papa esprime nei suoi discorsi quotidiani (non parlo evidentemente del Papa quando parla come interprete della fede di tutta la Chiesa)».

Pioletti: «Credo che un punto fondamentale, per tornare sull’episodio, sia cercare di individuare le cause e andare oltre. Le cause secondo me vanno ricercate nel contesto. C’è quella che all’interno della Chiesa a me appare una linea di revisione, non in avanti ma indietro, del Concilio Vaticano II. Il porsi come discorso politico, mettendosi sul piano di soggetto politico. E questo significa anche accettarne le conseguenze e qualche fischio. A Roma si eleggerà il rettore, e anche questo è un elemento che ha giocato in tutta questa sceneggiata, che io non voglio minimizzare, ma che però bisogna superare. Per andare oltre noi dobbiamo avere chiare alcune categorie. Cosa intendiamo per laico e per dialogo. Ricordo che, per la sua radice, la parola “laico” si riferisce a “qualcosa che è proprio del popolo”. Allora , come ha detto Claudio Magris, ci può essere un laico del tutto intollerante e uno che è aperto al dialogo. “Laico è una forma mentis, non è un contenuto filosofico, ma la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è oggetto di fede, a prescindere dall’adesione o meno a tale fede”. Allora ci sono dei laici non laici e dei non laici laici, appartenenti al popolo della Chiesa, di grandissima apertura. In questo senso dobbiamo andare oltre, cioè porci il problema di cosa vuol dire conoscere l’altro, che in questo caso è il popolo della Chiesa, per il non credente, ma anche le altre religioni. Di fatto viviamo in una società multiculturale e multi religiosa e – cito il primo articolo dello Statuto del nostro Ateneo che è poi dettato costituzionale – l’Università è laica, pluralista e indipendente. Allora apriamoci a questo dibattito. Questo vuol dire essere laici».

Ruggieri: «In merito a quanto detto da Pioletti, come cristiano e come uomo di Chiesa, un’altra cosa mi sembra importante. In questo momento una parte della gerarchia ecclesiastica è convinta di giocare un ruolo pubblico, non puntando tanto su quello che è la natura propria del Vangelo, Nostro Signore venuto in mezzo a noi, crocifisso che annuncia il regno di Dio ai poveri, ma piuttosto sui cosiddetti valori universali o legge naturale. Ora, senza negare che ci siano valori comuni e necessari per la convivenza umana, questo mi sembra un fatto estremamente ambiguo. Infatti la peculiarità del messaggio cristiano non si basa su questi argomenti, bensì sul Vangelo. E purtroppo noi stiamo perdendo di vista che Gesù, proprio nella testimonianza che ha lasciato della sua vita, sia un “fatto pubblico” che interpella gli altri e chiede delle reazioni proprio sui contenuti stessi del suo messaggio. Questo mi pare un punto delicato che ha delle conseguenze di cui molti ancora non si accorgono. Io noto nell’attuale situazione, purtroppo, l’assenza della predicazione del Vangelo».

Nella lettera scritta dal professore Cini e divulgata dalla stampa si dice che la teologia è una scienza che non si insegna più da tanto tempo nell’Università. Ma l’Università non può essere un luogo deputato per eccellenza al dibattito su fede e scienza?
Ruggieri: «Ritengo l’osservazione del prof. Cini poco lucida e molto provinciale. Ignora che nelle Università del mondo germanico e anglosassone la teologia è inserita come facoltà specifica all’interno del loro ordinamento e produce confronto e dialogo. E forse molti non sanno che in Italia attualmente il principale oppositore dell’insegnamento della teologia nelle Università statali è la Chiesa, non lo Stato. Vorrei ricordare come il tentativo di introduzione di una facoltà di teologia a Trento, qualche anno fa, sia stato bocciato dal primo governo Prodi per un intervento pesante del cardinale Ruini, e che un analogo tentativo dell’Università di Bologna, fu bocciato per un intervento del governo su pressione della Santa Sede. Chi non vuole l’insegnamento della teologia è la Chiesa, che crede di perderne in questo modo il controllo.
«L’Università può essere luogo del dibattito tra fede e scienza?» Se non lo è perde la sua natura di incontro e confronto libero di vari saperi. Che la teologia costituisca un sapere storicamente accumulato e storicamente significativo, al di là del fatto che si condivida o meno la fede su cui essa si poggia, è un dato di fatto inoppugnabile. Che l’Università sia un luogo di incontro mi pare ovvio. Io stesso negli anni passati mi sono fatto promotore qui a Catania di una convenzione tra Università Studio teologico e Arcivescovado, per istituire un centro di ricerca sul fenomeno religioso in cui sono coinvolti teologi, giuristi, storici, letterati e uomini di scienza, il Cesifer (Centro di studi interdisciplinari del fenomeno religioso), che ha sede formale all’interno del complesso dei Benedettini. E vorrei ancora ricordare che ogni 2 anni l’Università di Catania e lo Studio teologico fanno un convegno comune, di cui escono regolarmente gli Atti, per cui, almeno a Catania, anche se in forme non appariscenti, ma molto sobrie, il confronto avviene».

Pioletti: «Personalmente non avrei nulla in contrario alla presenza di questo insegnamento. La Universitas non può non essere luogo deputato alla circolazione e all’incontro dei saperi. L’Università si deve fare attraversare dalle contraddizioni del presente, sapendo che non dà “la risposta”, ma confronta le risposte, e questo è di fondamentale importanza. Io sono uno strenuo difensore della laicità e del carattere indipendente dell’Università, ma non intendo laicità come chiusura rispetto alle questioni poste dal mistero della fede, dalla storia delle religioni e dalla loro conoscenza. E’ quello che cerchiamo di fare e dovremmo cercare di fare sempre più e sempre meglio. Per questo dico che quello che è avvenuto rischia di farci regredire. Dobbiamo impedire a chiunque voglia farlo, gerarchie ecclesiastiche o laicismi virulenti che siano, di farci regredire. La democrazia è fatta di conflitti, ma la minaccia della violenza non ci serve ed è da bandire. Questo episodio è l’occasione per dire “no, grazie, da questo livello dello scontro noi ci dissociamo”».


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