Riprendiamo da Repubblica.it un articolo sul rapporto tra sicurezza e privacy e sul business delle telecamere a circuito chiuso, contro il traffico, anti-vandali. E vi riproponiamo quanto, un anno fa, Step1 aveva scritto sull'argomento - Il Grande fratello arriva a Catania di Andrea Deioma
Grande fratello Spa
Riprese al cimitero del Verano contro i vandali, videosorveglianza a Brescia davanti alla moschea, vigili elettronici per l’accesso al centro di Milano, record di controlli a Reggio Emilia con una telecamera ogni 650 abitanti. Così in Italia siamo tutti spiati. Una videocamera ci segue e il Grande fratello è diventato un grande business da 1700 milioni di euro l’anno. Un affare ma anche un pericolo. “Ogni cento metri entriamo nel campo di ripresa di una videocamera senza sapere chi ci filma e perché. È una realtà drammatica. Per fortuna non ci si pensa, altrimenti vivremmo nell’angoscia“.
L’allarme della “deriva tecnologica” nella videosorveglianza lo lancia Franco Pizzetti, presidente del Garante della Privacy. “Nessuno sa – dice Pizzetti – quale sia il numero delle telecamere in funzione. Una cosa, però, è certa: il ricorso all’occhio elettronico è eccessivo“. Qualche giorno fa, alle Molinette di Torino – sorvegliata da cento telecamere – il delegato Cgil, Francesco Cartellà, ha denunciato al direttore generale l’uso della videosorveglianza “per controllare il personale” della radiologia universitaria del professor Giovanni Gandini. La direzione sanitaria ha accertato la violazione e ha intimato al docente di disattivare gli obiettivi durante l’orario di lavoro. L’ultimo provvedimento del Garante per la Protezione dei dati personali è stato nei confronti di Arese, cittadina del Milanese sede degli ex stabilimenti Alfa Romeo. Il comune è stato ammonito perché aveva installato, per sorvegliare il municipio, telecamere “in grado di guardare fin all’interno delle abitazioni“.
Di fronte all’invasione nella nostra vita del Grande Fratello, Franco Pizzetti, presidente del Garante per la privacy, si interroga “su quanto, per salvarsi la vita, si può perdere l’anima“. “E quanto invece vale salvare la propria libertà di vivere, senza l’incubo di essere controllati“.
Per i responsabili del ministero dell’Interno, invece, le telecamere restano uno strumento insostituibile per la tutela della sicurezza pubblica: credono talmente nel Grande Fratello, che il viceministro Marco Minniti, il 14 novembre di un anno fa, annunciò alla Camera che Napoli sarebbe diventata “una delle città più videosorvegliate d’Italia“. Per videosorvegliare la camorra, il ministero ha stanziato 7 milioni di euro ai quali se ne sono aggiunti 3 del Comune di Napoli e della Regione Campania.
Quelle ottimistiche previsioni, tuttavia, non si sono realizzate. Napoli non è, oggi, come auspicato da Minniti, la città più videocontrollata. Ma la metropoli con la più alta percentuale di telecamere non funzionanti. A denunciarlo, è Lucia Rea, dirigente delle Politiche per la sicurezza della Provincia di Napoli e responsabile dei progetti di videosorveglianza. “Le modernissime telecamere installate in città sono 440 – spiega Lucia Rea – al momento, però, quelle funzionanti sono solo la metà. Del 50 per cento fuori uso, il 30 per cento è per ragioni tecniche, la restante parte perché mancano i collaudi“. Oltre il danno, la beffa. “Per installare questi impianti – ha aggiunto Rea – siamo vittime di lungaggini burocratiche: l’appalto per la videosorveglianza della zona Vesuviana, ad esempio, è durato quasi tre anni. Il Viminale dovrebbe aiutarci a utilizzare procedure più snelle“.
Il ricorso alle telecamere è un fenomeno che negli ultimi anni ha registrato un autentico boom, un business in continua crescita che s’aggira intorno ai 1700 milioni l’anno. Migliaia di poliziotti virtuali ci sorvegliano, registrando ogni nostro movimento da quando usciamo di casa: ci filmano sui mezzi pubblici, leggono la nostra targa agli incroci, ci controllano nei supermercati e in discoteca, tengono d’occhio i malati nelle rianimazioni.
I “patti per la sicurezza” stipulati l’estate scorsa fra il Viminale e le grandi aree metropolitane hanno dato un ulteriore impulso alla videosorveglianza. A Milano, ad esempio, è previsto il monitoraggio di tutte le auto in transito ai caselli autostradali. Analoghe telecamere – in grado di leggere le targhe e collegarsi alle black list del Ministero dell’Interno che censisce tutti i veicoli rubati in Italia – è in corso di installazione proprio nel Napoletano. Fra i vari progetti che riguardano la sicurezza pubblica, c’è anche quello di installare obiettivi di fronte ai tornelli di ingresso degli stadi per fotografare il volto di ogni tifoso e identificare poi, se necessario, gli ultrà violenti.
Ma il Grande Fratello veglia perfino sulle tombe dello storico cimitero romano del Verano, preso di mira dai tombaroli. E Brescia e Varese, due amministrazioni di centrosinistra, hanno posizionato zoom (collegati alla Questura), davanti alle moschee. La città che ha il più alto rapporto fra cittadini e telecamere è Reggio Emilia, ce n’è una ogni 650 persone. A Bergamo è da tempo in funzione il bobby elettronico – una sessantina di telecamere – che serve soprattutto da deterrente.
Nella Capitale ce ne sono già più di 2000: in via Veneto, immortalata da Federico Fellini come “teatro della dolce vita”, se ne contano 35, una ogni venti metri. Cento sorvegliano la stazione Termini. Una decina la colonna Traiana di piazza Venezia a Roma, danneggiata tempo fa da vandali. I 1400 obiettivi dislocati nelle due linee della metro hanno consentito di identificare Doina Matei, la giovane romena che ad aprile uccise Vanessa, colpendola con un’ombrellata in un occhio.
Non sempre, però, l’occhio del Grande Fratello ci vede, è vigile e attento. Nel gennaio di quest’anno un duplice omicidio di camorra s’è svolto a Torre del Greco, provincia di Napoli, proprio sotto le telecamere del comune in quel periodo commissariato. Peccato, però, che il costoso sistema comunale di videosorveglianza fosse in quel momento disattivato. Ma il caso più clamoroso l’ha denunciato il viceministro dell’Interno Marco Minniti alla Camera il 30 maggio. “In una grande città del Sud – ha dichiarato il viceministro – può capitare che venga commesso un omicidio proprio davanti a una videocamera, di fronte a un palazzo importante, senza che nessuno abbia cambiato cassetta. Ma questo non rientra nelle nostre possibilità di controllo“.
Il riferimento era all’omicidio, il 25 febbraio, di un ragazzo di 25 anni, Donato Stellato, proprio sotto l’angolo visuale delle costose telecamere (“senza cassette“, come riferito da Minniti), del tribunale di Salerno.
Ma come reagisce la gente, per dirla con il professor Pizzetti, “alla spaventosa diffusione delle videocamere collocate dai soggetti più diversi e per i fini più svariati?“. “Il punto di equilibrio – spiega il Garante per la privacy – è dato dal bilanciamento fra il bisogno di sicurezza e la paura di essere così controllati da perdere ogni libertà“. L’autorità per la protezione dei dati personali ha stilato un decalogo per l’uso corretto di telecamere. Ma ancora oggi, c’è chi non lo rispetta e trasgredisce le regole.