La lezione dei Fasci agrigentini

LA STORIA D’ITALIA, DA FRANCESCO CRISPI AI NOSTRI GIORNI, E’ COSTELLATA DI STRAGI. E DI TRATTATIVE TRA STATO E MAFIA

di Luigi Capitano

La repressione dei Fasci attuata da Crispi all’inizio del 1894 fu brutale come quella del brigantaggio e perfida come le stragi di Stato che hanno costellato la cosiddetta “Prima Repubblica”, a partire da Portella della Ginestra (1 maggio 1947), su su fino alla “strategia della tensione”, alle stragi mafiose di Capaci e via d’Amelio nel 1992, a quelle di Firenze e Milano del 1993, e al fallito attentato all’Olimpico di Roma del 1994, che precede di pochi giorni la famigerata “discesa in campo” del Caimano. A pensarci bene, dal 1894 ad oggi si è registrato in Italia un secolo di stragi e di bombe, seguite dall’inverecondo ventennio berlusconiano di pax mafiosa e di trattative Stato-mafia.

1. I Fasci, la Resistenza, la Liberazione. Quella dei Fasci fu una rivoluzione sociale mancata, ma fu anche una rivoluzione civile in gran parte riuscita: una stagione di maturazione dei diritti che ha consentito nel tempo al popolo siciliano di scrollarsi di dosso secoli di soprusi e di retaggi feudali. Attraverso le “leghe di resistenza” l’esperienza dei Fasci ha aperto la via ai valori di libertà e giustizia, di solidarietà, di miglioramento delle “condizioni economiche, morali ed intellettuali delle classi lavoratrici”. Sono questi i termini che risuonano negli statuti dei lavoratori dell’agrigentino del giugno-ottobre 1893 come in quelli di altre province siciliane. E sono più o meno le stesse parole che rappresentano pure il testamento spirituale del mazzinianesimo depositato nella nostra Costituzione (art. 4) ad un secolo di distanza dai principi fondamentali della Repubblica Romana (che parlano già delle “condizioni morali e materiali” dei cittadini).

Il fenomeno dei Fasci Siciliani s’inquadra, com’è noto, nel contesto dei movimenti contadini per la liberazione dal latifondo. La liquidazione del latifondo è stata più volte annunciata in Sicilia nel corso dei secoli (dalla metà del Settecento con Carlo III di Borbone alla metà del Nocevento, passando per le promesse mancate di Garibaldi). La mancata risoluzione della questione agraria nel Sette-Ottocento ha avuto delle conseguenze enormi, a cominciare dalla nascita del fenomeno mafioso, che era pressoché inesistente prima dell’unità d’Italia. Francesco Crispi, non contento di aver ordinato la strage di Bronte, dopo la grave crisi agricola da lui stesso provocata con una miope politica protezionistica, finì con lo stroncare il movimento dei Fasci, portando alla sbarra i suoi leader, e non trascurando di vendicarsi di un avversario politico come il catanese De Felice Giuffrida, che perdippiù era un collettivista dichiarato. (sopra foto tratta da coltiviamolegalita.blogspot.com)

I Fasci Siciliani, sorti nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, rappresentano forse la più grande epopea popolare a livello mondiale dopo la Rivoluzione francese e il Quarantotto; certamente il primo importante esperimento di rivolta sociale e di organizzazione socialista dopo la Comune parigina. Quello dei Fasci rimane inoltre, di sicuro, il primo massiccio movimento di protesta antimafia della storia. Ricordiamo che in ogni più piccolo centro abitato della Sicilia – anche dalle nostre parti – gli iscritti ai Fasci si contavano a centinaia e a migliaia, fino a raggiungere la cifra totale di 200.000 che – tanto per avere un termine di confronto – equivale al numero degli iscritti in tutta Italia a Federterra e alla CGL all’inizio del Novecento, nonché al doppio dei giacobini in tutta la Francia del Settecento. Le rivendicazioni dei contadini poveri organizzati nei Fasci, che versavano in condizioni di inimmaginabile miseria, lavorando dall’alba al tramonto anche per meno di una lira al giorno, si incontrarono con la predicazione dei leader socialisti che propugnavano la nazionalizzazione delle terre e il “sol dell’avvenire”, spingendosi ben oltre gli obiettivi sindacali della riforma dei patti angarici, ossia della richiesta di contratti più equi come la mezzadria, già praticata fin dal medioevo nell’Italia continentale.

“Giustizia e libertà” erano le parole d’ordine in cui le esigenze materiali e quelle ideali potevano incontrarsi in un cammino di lotta che, dopo la “battuta d’arresto” provocata dalla repressione, non avrebbe potuto certo essere interrotta, contribuendo in maniera determinante al fermento dei valori della democrazia insieme a quelli del socialismo riformista. La lezione dei Fasci è che l’unione e la solidarietà fanno la forza (di qui la metafora del fascio), e che il travaglio della storia, lento quanto si voglia, conduce inesorabilmente alla maturazione di diritti imprescrittibili. Si ricordi che la tolleranza religiosa rappresenta il difficile parto di un secolo di guerre di religione nell’Europa moderna; che i diritti dell’uomo avanzati durante la Rivoluzione francese sono stati riconquistati solo dopo due secoli e due guerre mondiali. Analogamente, la lotta delle masse oppresse che si affacciava alla ribalta della storia con i Fasci non avrebbe potuto concludersi calando semplicemente il sipario della repressione. Raccogliendo l’eredità ideale più alta del Risorgimento (la lotta per la democrazia), i Fasci preparavano la strada, senza saperlo, ad un nuovo glorioso movimento di liberazione: la Resistenza.

Gli ideali di giustizia e libertà erano già stati chiaramente espressi dalla predicazione di Giuseppe Mazzini. Su questa linea, si muoveva anche la figura del saccense Saverio Friscia, che nel 1867 fondava a Napoli la prima Associazione socialista dal titolo «Libertà e Giustizia». Ed era sempre lo stesso binomio che animava i sogni dei fascianti, come poi quelli di Piero Gobetti e dei fratelli Rosselli nella loro strenua e fatale opposizione al nazifascismo. A segnare questa ideale linea di continuità tra Fasci e antifascismo, potremmo citare, a titolo d’esempio, un Pompeo Colajanni, nipote di Napoleone Colajanni (l’esponente socialista che era stato di riferimento anche per il nostro Panepinto). Non per caso, durante la Resistenza, Pompeo Colajanni aveva prescelto quale nome di combattimento nelle brigate “Giustizia e Libertà” proprio quello di un leader storici dei Fasci: “Nicola Barbato”.

Sfidando lo stereotipo – anche letterario – dell’immobilità fatalistica e irredimibile dei Siciliani, la lotta contadina riprendeva nelle campagne della Sicilia fino alla metà del Novecento, quando con la strage di Portella della Ginestra (nello stesso anno il 1947, in cui cadono vittime della mafia due sindacalisti come Accursio Miraglia di Sciacca e Placido Rizzotto di Corleone) si registrava una nuova strage di stato in una trama che collegava la mafia ai servizi segreti americani (nel suo Candido, Sciascia ricorda come già fin dal primo giorno della Liberazione gli ufficiali americani avessero in tasca la lista dei notabili mafiosi cui poter fare riferimento per assicurare la riuscita dell’operazione). La legge che decretava la fine del latifondo nel 1950 non mutava la fisionomia del paesaggio agrario, anzi provocava a una nuova massiccia ondata migratoria.

2. I “cafoni” come metafora planetaria? La condizione dei contadini meridionali a cavallo fra i due secoli Otto e Novecento diventa così per noi una grandiosa metafora della condizione planetaria delle plebi diseredate e oppresse in lotta per l’emancipazione e la difesa dei diritti umani, sociali e politici in un pianeta che rimane attraversato da vecchie come nuove spaventose diseguaglianze: fra ricchi e poveri, fra nord e sud del mondo, fra società opulente e popoli indigenti, fra nazioni ricche e masse di migranti, profughi e “vite di scarto” del terzo e quarto mondo; fra un’immensa maggioranza silenziosa non organizzata e minoranze assolute di detentori del capitale e delle centrali della finanza, del mercato e del crimine. Le lucide analisi di filosofi come Noam Chomsky e Vandana Shiva, di economisti come Stiglitz, di sociologi come Bauman, di studiosi del fenomeno mafioso come Umberto Santino e Giuseppe Carlo Marino, convergono in modo unanime e inequivico su questo punto, che ormai è parte di una larga consapevolezza collettiva. Un nuovo Impero – quello finanziario e delle multinazionali – domina il mondo a danno del bene comune e dei beni comuni. Lo possiamo osservare ovunque, anche dalle nostre parti. Nel medioevo si chiamavano “regalia argentaria”, oggi si chiama ad esempio, concessione, gestione e sfruttamento dell’acqua pubblica a vantaggio di privati anche a fini commerciali. Non abbiamo bisogno di andare lontano per vedere come il bene comune venga sistematicamente rapinato dai privati e a vantaggio di lobby senza scrupolo, ‘consorzi’ criminali, società multinazionali. La nostra “terra di rapina”, già granaio d’Italia e d’Europa, è diventata una perfetta metafora planetaria.

E di che cosa non è metafora la Sicilia, si chiedeva Sciascia? Di che cosa non potrebbero essere metafora i Fasci siciliani, ci chiediamo noi oggi? Ma anche se fosse, non sarebbe certo un’esclusiva. Non c’è regione, provincia o paese, che non possa essere preso come una metafora del mondo, tanto per tentare di sprovincializzare un fenomeno che troppo spesso tinge la nostra memoria storica di un compiaciuto colore folkloristico. Così, perfino l’Abruzzo dell’epoca fascista può diventare una metafora della Sicilia dei “cafoni” e dei signorotti mafiosi. Fontamara di Ignazio Silone offre un affresco davvero memorabile al riguardo. Il romanzo – da cui è stato tratto anche un bel film – è ambientato in un tempo e in un luogo che potrebbe essere quello di qualunque latitudine della geografia e altezza della storia, in un quadro metafisicamente sospeso fra biografia, storia e narrazione. “Fontamara, ha scritto lo stesso Autore, somiglia dunque, per molti lati, a ogni villaggio meridionale il quale sia un po’ fuori mano, tra il piano e la montagna, fuori delle vie di traffico, quindi un po’ più arretrato e misero e abbandonato dagli altri. (…) Allo stesso modo, i contadini poveri, gli uomini che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i fellahin [egiziani] i coolies [indocinesi] i peones [messicani] i mugìc [russi] i cafoni [siciliani], si somigliano in tutti i paesi del mondo”, in tutte le periferie del mondo. Questa immensa moltitudine di derelitti, dannati della Terra, sconfitti ed emarginati della società si potrebbero accostare agli zolfatari siciliani di fine Ottocento osservati con gli occhi sgomenti di un cronista come Adolfo Rossi. Allo stesso titolo si potrebbero paragonare ai piccoli cafoni nudi sepolti in vere “bolge infernali” a “scavare tesori” (come diceva il poeta Rapisardi) come i cercatori d’oro nel formicaio brasiliano di Serra Pelada immortalato da uno scatto del fotografo Sebastião Salgado. Nel romanzo di Silone la condizione del “cafone” diventa quasi una categoria epocale e planetaria, in un’epopea corale della miseria e dell’inutile rivolta, riscattata però – in un nuovo Germinal – dalla presa di coscienza dei diritti da parte di una piccola comunità sfruttata e beffata dal potere.

Come abbiamo detto – e giova non dimenticare – la mancata risoluzione della questione agraria nel corso del nostro Risorgimento ha avuto per effetto la nascita del fenomeno mafioso. La mafia è storicamente figlia del latifondo. Oggi il lavoro è quasi scomparso dalle campagne e insieme ad esso si è dileguata la stessa civiltà contadina, con tutti i suoi valori materiali e ideali.

Oggi la questione del lavoro precarizzato investe molti settori, lontani dal mondo agricolo, ormai meccanizzato, industrializzato e aperto alla concorrenza spietata del mercato globale. Quello che resta è la mafia globalizzata, migrata dai latifondi alle città, ai grandi centri del potere occulto. La precarietà del lavoro investe oggi il 99% della popolazione mondiale. Di qui le proteste degli indignati, dei no global, dei sans papiers, dei comitati di base, le reti di resistenza dei cittadini per la difesa dei beni comuni.

Dopo più di un secolo, la storia non è cambiata di molto: alla sacrosanta protesta dei disoccupati, alle manifestazioni di piazza dei precari e dei poveri della Terra, alla ricorrente agitazione delle giovani generazioni che reclamano il diritto allo studio e al lavoro, come rispondono ancora i governi meno democratici di tutto il mondo? Con la repressione, i manganelli, la difesa prepotente dell’ordine costituito, la normalizzazione. Nella migliore delle ipotesi, con vane promesse di riforme e di cambiamento. Al tempo dei i Fasci, dai delegati di PS più ‘benevoli’ arrivavano alle sottoprefetture notizie spesso rassicuranti di proteste pacifiche (non di rado inneggianti al re e alla regina!), ma il governo centrale, in combutta con i mafiosi locali, preferì ignorarle. Preferì agitare lo spettro del pericolo rosso; preferì far credere che si trattava di folle di faconorosi e di fuorilegge in rivolta contro le amministrazioni locali, pronti a sovvertire l’ordine e la proprietà borghese, manipolati da improvvisati ed esaltati “arruffapopoli” in tasca al partito socialista. Crispi rimane così un esempio tipico di come il principio di legalità possa venire stravolto dal potere con malafede ‘istituzionale’.

3. La pedagogia rivoluzionaria di Lorenzo Panepinto. Fra i leader carismatici dei movimenti contadini, vogliamo ancora una volta ricordare la poliedrica figura del quisquinese Lorenzo Panepinto: maestro elementare e fondatore dei Fasci di Santo Stefano Quisquina (22 settembre 1893), promotore di leghe e lotte contadine, dirigente socialista, pubblicista, pedagogista, artista. In contatto con diversi tra i maggiori capi fascianti (Verro e Alongi) ed esponenti socialisti (Napoleone Colajanni ed Enrico La Loggia). Dopo aver frequentato lo storico Ginnasio di Bivona, si era formato su alcuni capisaldi del pensiero filosofico e pedagogico (da Platone ad Ardigò), che cercò di diffondere, dirigendo una piccola collana editoriale. Diresse pure la rivista “La Plebe” (1902-1905), l’organo ufficiale delle “leghe di miglioramento” che dall’agrigentino raggiunse ben presto una tiratura a livello regionale, dibattendo vivacemente sulle più scottanti cronache e questioni sociali. Panepinto fu un cavaliere dell’utopia capace di azioni concrete, un mite sovversivo, un “maestro dell’avvenire”. Come presidente dei Fasci di Santo Stefano, dopo aver ‘costretto’ i contadini a scioperare, riuscì finalmente ad ottenere nel novembre 1893, “terra e semenza”, migliorando così il contratto mezzadrile, in linea con i “Patti di Corleone”. Dieci anni dopo presiedeva il primo congresso socialista di Agrigento e Palermo, richiamando all’unità della lotta. Come altri capi fascianti (Nicola Barbato, ad esempio), egli interpretava la sua missione come un apostolato di giustizia e libertà. Sulla scia di Mazzini, Panepinto sognava una “quarta Italia” dalla democrazia finalmente sbloccata, senza “ministri prevaricatori” la penosa “emigrazione cenciosa e analfabeta”. Sulla via di Giordano Bruno e di Marx, vagheggiava un mondo più giusto e privo di violente superstizioni. Ispirandosi al pedagogista libertario Francisco Ferrer, voleva una “scuola popolare” (noi oggi diremmo una scuola “pubblica”), più libera e meno simile ad un “carcere” in cui ogni insegnante si “abbada” manzonianamente “a far l’oste”, senza preoccuparsi di “favorire la dinamogenesi di ogni buona attitudine”; una scuola aperta ai bisogni della società e capace di dischiudere una nuova alba sociale. Si ricordano le strenue battaglie di Lorenzo Panepinto per l’organizzazione del nascente cooperativismo agrario, teso a sottrarre l’affitto (gabella) e il lavoro della terra dalle grinfie dei gabelloti mafiosi.

Nel biennio 1907-1908 fu attivo anche a Tampa in Florida, dove era presente una colonia di emigrati sigarai. Rimangono per noi memorabili le due ultime conferenze di Panepinto tenute al circolo “Giordano Bruno” di Bivona un anno prima della sua uccisione per vile mano mafiosa. La sua eclettica visione etico-politico rifletteva l’umanitarismo di ogni tempo (da quello di Gesù Cristo a quello degli Illuministi, a quello di Mazzini, dei teorici del comunismo e dell’evoluzione sociale). Con la sua Cassa agraria cooperativa, che precorreva lo spirito delle odierne banche etiche, Panepinto sottraeva nel 1910 il credito agrario all’usura della Cassa Cattolica e ciò bastò a decretare la sua condanna a morte.

Torno a parlare di Lorenzo Panepinto poiché a mio parere non si tratta di un protagonista proprio di secondo piano dei Fasci Siciliani, come delle successive battaglie sociali che sembrarono potersi sbloccare col favore del governo Sonnino. La nuova strategia cooperativistica a favore delle “affittanze collettive” rilanciata da Panepinto e Verro dal congresso di Santo Stefano Quisquina (1903) a quello di Corleone (1904), a quello di Palazzo Adriano (1909), venne subito percepita come una concreta minaccia da parte della mafia: nell’arco di un quindicennio (1905-1920) fra Palermo e Agrigento si contarono ben otto vittime fra i maggiori organizzatori sindacali. Fra essi vi erano pure tre ex capi fascianti: Panepinto, Verro e Alongi.

Il bilancio delle vittime dei Fasci nel biennio 1893-94 (in parte anche sotto il governo Giolitti!) registrava più di un centinaio di morti (108, per l’esattezza). A ondate successive e ancora per decenni, i movimenti contadini e proletari continuarono a venire falcidiati dalle forze dell’ordine e dal blocco d’interessi agrario-mafioso. E quando non venivano repressi nel sangue, venivano soffocati con arresti di massa. Lo stesso Pio la Torre, cui si deve la famosa legge sul reato di mafia, rimase in carcere dal 1950 al 1951.

4. Emigrazione ed emigrazione. Dopo il 1894, non restò per molti isolani altra via che l’emigrazione, che si indirizzò inizialmente verso il continente africano, poi verso le rotte transoceaniche. Anche dopo la fallita riforma del 1950 un numero impressionante di Siciliani (circa un milione e mezzo in vent’anni) abbandonò l’isola in cerca di condizioni di vita migliori. Che dire se oggi, mutate le condizioni storiche, dall’Africa sale verso di noi un’ondata migratoria di disperati in fuga dalla guerra e dalla miseria che nessuno nel Vecchio Continente riesce ad accogliere degnamente? Che dire se anche dopo il 3 ottobre 2013 il disastro di centinaia di naufraghi al largo di Lampedusa si è ripetuto dopo appena una settimana (l’11 ottobre), facendo passare orrendamente in sordina la notizia come pure le responsabilità del mancato soccorso immediato da parte dell’Italia? Che dire delle condizioni scandalose in cui versano centri di “accoglienza” (in realtà di reclusione) come quelli di Lampedusa e di Mineo? E che pensare delle “risposte” dell’attuale ministro dell’interno? I nostri emigrati partivano in altri tempi con qualche speranza, e qualche possibilità di speranza trovavano. I nostri immigrati del Mediterraneo arrivano, quando arrivano, ancora più disperati di prima.

5. Fascianti vs fascisti; giellisti vs ‘gellisti’. Sono passati centoventi anni dalla proclamazione dello stato d’assedio voluto da Francesco Crispi per prevenire la paventata insurrezione nella nostra isola. Allora bastò agitare lo spauracchio della sinistra al potere per imprimere un giro di vite a destra. In un tempo come il nostro in cui la distinzione ideologica fra destra e sinistra appare così sbiadita, non sarebbe male provare a rimarcare la differenza fra i “gellisti” piduisti (gli amici dei poteri forti e occulti) e i “giellisti” (i seguaci di “Giustizia e Libertà”). Questa linea di demarcazione corre non per caso parallela, e in qualche modo discende, da quella tra i fascisti e i fascianti, tra reazionari e democratici, con le loro rispettive schiere di eredi più o meno degni. Non si potrebbe forse riscrivere la storia degli ultimi cinquant’anni a partire da questa semplice traccia?

Centoventi anni ci separano dal triste epilogo dei Fasci. Col senno di “poi”, credo si possa condividere solo in parte il giudizio espresso da Leonardo Sciascia, che vedeva in essi “il processo di rinnovamento tuttora in corso” di una mentalità siciliana che, oltre a riflettersi nella nostra civiltà letteraria da Verga a Pirandello, “ha già al suo attivo il raggiungimento dell’autonoma regionale”. A distanza di tanto tempo sarebbe tuttavia il caso di tornare a riflettere su quello che oggi le istituzioni – dalle scuole agli enti locali, ai governi nazionali e agli organismi sovranazionali – potrebbero o dovrebbero fare per difendere, non solo a parole, il bene comune della terra e la dignità del lavoro. Che cosa potrebbero o dovrebbero fare per intercettare le esigenze che provengono dalla società e dai giovani, anziché coltivare il giardino dei propri limitati interessi, indifferenti alle possibili catastrofi che si addensano sull’avvenire dell’umanità e ciechi di fronte ai moniti degli spiriti più insonni e lungimiranti.

(Foto tratta da legalitaegiustizia.it)

 


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