Tra Capo d’Orlando e i Nebrodi, alla ricerca dell’ebbrezza dionisiaca

di Cettina Vivirito

Ricordo un incontro con Dioniso, il giorno in cui assaggiai il vino novello, nella campagna nebroidea. Camminavo con un amico per i campi, ci eravamo inoltrati in un boschetto ed io ero felice come quando ci si inoltra in un contado leggiadro, ma a distanza di tempo non me ne ricordo nemmeno, dei caratteri di quella contrada. Sono i profumi che rimangono intatti e riempiono la memoria, la sfidano con la loro varietà che non si riesce a fermare con le parole. Sono i sentori di quei fiori e quelle erbe che soltanto su queste montagne crescono e giungono nuovissimi alle narici appena lasciata la provinciale.

Arrivammo a una casetta dove un gruppo di uomini stava degustando il vino nuovo e ci osservarono con attenzione, ma subito il più anziano ci pregò di partecipare, con un tono dove mi parve di sentire la forza, di così remote origini, dell’ospitalità; i volti seri e benevoli mi diedero la sensazione di quel rito arcaico. Ci si sentì accomunati. Prima che ce ne andassimo, quattro di loro si alzarono a danzare dignitosamente una lenta danza in tondo. Ci salutammo in silenzio, ma lì Dioniso avrebbe continuato a stare sdraiato degustando dalla coppa. (a sinistra, foto tratta da romanoimpero.com)

Come in una storiella infantile raccontata da Elemire Zolla, credo che questa esperienza, in altra manifestazione, appartenga anche a quella di ogni bambino: gli si presenta un coetaneo e i due si guardano a vicenda contraccambiando noia, stando immobili e indifferenti l’uno al cospetto dell’altro. Ma tutt’a un tratto una parola cade nel silenzio o una corrente scatta fra i loro occhi e subito si sentono trasportati in un altro, incomparabile spazio. Distanza, differenza, intervallo di separazione sono svaniti, essi formano un’unità. Corrono furiosamente gridando, eccitandosi, soffiano fiatoni fitti fitti, come stessero nuotando in un’acqua ribollente. Dura quel che dura, qualcuno interviene, basta una voce seria e tornano in sé, separati, distinti.

Questo trasporto ha un nome proprio, Dioniso, cui Ovidio si rivolgeva esclamando: Tu, puer aeternus. L’incontro con Dioniso può nascere da un vinello qualunque che precipiti all’improvviso in un’esuberante risata, ogni mossa fa piegare in due dai singulti, tutto si palesa come un immenso scherzo. E’ in grado di appropriarsi della nostra vita all’improvviso in un qualunque momento. Dioniso spezza il giogo delle dualità: conscio/inconscio, persona/cosmo. Sta sempre in agguato e grazie a lui ci si congiunge all’ambiente, non si sa più che cosa siano, dove abbiano confine, il bene e il male.

Storiografi e mitografi generalmente sono d’accordo nell’escludere che il mito di Dioniso sia sorto in Grecia, dove il culto dionisiaco si radicò non prima dell’VIII secolo a.C. Secondo alcuni, il mito di Dioniso sarebbe di origine tracica, secondo altri di origine cretese, secondo altri di origine indiana. Nessuno degli argomenti posti a sostegno dell’una o dell’altra di queste ipotesi regge al confronto con argomenti che conducono ad una conclusione ben diversa da ognuna di esse, considerando: che la versione più antica del mito di Dioniso è sicuramente coeva alle origini di Agatirno, (l’attuale Capo D’Orlando), città sacra a Dioniso; che in tutto l’orbe terracqueo solo i Nebrodi furono, di nome e di fatto, i monti di Bacco: il paesaggio dei quali, ancora oggi, è il più dionisiaco che si possa immaginare, anche se non vi sono più i cerbiatti che vi pullulavano nell’antichità, fino a quando furono animali protetti, appunto perché sacri a Dioniso; che secondo la tradizione più antica, raccolta dall’autore del più grande poema che sia stato mai composto in onore di una divinità pagana (le “Dionisiache”, in 48 canti, Nonno di Panopoli), proprio in Sicilia sono collocati il concepimento e la nascita del primo Dioniso. (a destra, La Rocca del Monaco)

Dalla valle del torrente Manazza, in territorio dell’odierna Capo d’Orlando, e fino alla contrada Maina ed alla fonte omonima, in territorio dell’odierna Naso, vi è tutto un sentiero che, con questi stessi nomi (Manazza, Maina) ricorda l’antichissimo culto, derivando l’uno e l’altro nome dal greco mainás: da máinomai, che significa infuriare, essere invasati, per l’appunto da Dioniso o Bacco. Nella stessa valle si trova un’antichissima fonte, che i nativi hanno sempre chiamato con il nome Lia. Anche questo nome ricorda il dio Dioniso, che era invocato con l’appellativo Lièo (lo scioglitore dagli affanni, appunto). Nelle campagne di Capo d’Orlando sono stati rinvenuti numerosi oscilli (da oscillum, nome latino, composto di os e cillum, piccolo viso), ossia dischi di terracotta, raffiguranti il volto di Bacco, i quali venivano appesi ai rami degli alberi affinché, oscillando (da cui l’origine del verbo oscillare) allontanassero le forze malefiche dai campi.

Ma il culto di Dioniso o Bacco nei Nebrodi è attestato da prove certe, quali sono le monete delle antiche città di Alesa (odierna Tusa), Amestrato (odierna Mistretta), Calacte (odierna Caronia Marina) e Aluzio (odierna San Marco d’Alunzio): nelle quali monete appare la figura di Bacco, a volte accompagnata da quella di Sileno (compagno inseparabile di Bacco). La stessa cosa può dirsi per le monete delle città di Galaria (odierna Gagliano), Naxos (odierna Nasso), Tauromenio (odierna Taormina) e Catana (odierna Catania). Risulta quindi essere una solenne sciocchezza quella tramandata dal geografo latino Solino (del III – IV secolo d. C.) ed avallata dal Pais, secondo cui i Nebrodi avrebbero preso il nome dai cerbiatti (in greco nebrói) che vi abbondavano nell’antichità; è stato ignorato che Dioniso si chiamava pure Nebródes: i Nebrodi furono quindi, di nome e di fatto, i “monti di Bacco”.

Ciò che più di ogni altra cosa contribuì alla prosperità ed al benessere di questa parte orientale della Sicilia fu proprio l’essere stato fin dalle origini il centro propulsore del culto dionisiaco, con conseguente richiamo di fedeli da ogni parte dell’Isola: più o meno come Erice fu il centro del culto di Venere. (a sinistra, foto tratta da teknemedia.net)

L’inizio delle celebrazioni dei «misteri dionisiaci», così come pure quello dei «misteri eleusini», si perde nella notte dei tempi. La loro fine fu decretata ufficialmente nel 392 d.C. con l’editto di Teodosio il Grande che dichiarò il Cristianesimo religione ufficiale di Stato. Da quel momento ebbe inizio una persecuzione più o meno manifesta contro i riti non-cristiani che, nel corso dei secoli, distrusse e fece sparire non solo antichi riti e templi degli dei pagani, ma anche intere città, tra le quali la famosa Demenna che, sotto la dominazione araba, diede il nome a tutto il Val Demone. E, la cui etimologia è ricondotta da Michele Amari in Storia dei musulmani di Sicilia, al verbo greco “diameno”: “perduranti”, cioè permanenti nella fede (dell’Impero bizantino). Nulla di strano se alcuni “ornamenti” della storia locale, quali: il vecchio toponimo Ficara, che sta a indicare un territorio coltivato, in prevalenza ad alberi di fichi; l’appositivo “de Camino” (un “Cammino Sacro” simile a quello della “Strada Sacra” di Eleusi?), rinvenibile nel diploma con il quale l’imperatore Federico II, nel 1249, concesse al vescovo di Patti il grande bosco di Ficarra, Sinagra e Piraino, che comprendeva anche la chiesa di San Pietro de Camino (sita sul limitrofo Capud Brinionis) e una casa solarata dove “vi sono botti che possono contenere 160 salme di vino”, il pascolo, sotto tali boschi di greggi dei più pregevoli “castrati” della Sicilia che come fece notare lo storico Tommaso Fazello nel 1500: “Mentre son vivi e dopo la morte recano i denti perpetuamente dorati”; l’antica consuetudine, che ancora si rinnova ogni anno, di regalare per la “Festa dei morti” fichi secchi e certi dolcini (i cosiddetti “ossa ‘di morti”) che hanno il tronchetto superiore di farina a mo’ di fallo maschile, e la parte sottostante color miele a forma di ovale che, sia pur vagamente ricorda la vagina femminile; la riproduzione spontanea della razza autoctona del cosiddetto “suino nero dei Nebrodi”; l’antico nome del porto di Brolo (considerato l’affaccio a mare di Ficarra) che gli Arabi chiamavano Marsà Dàliah, cioè “porto della vite”, possano costituire “l’adombramento” della perpetrazione di antichi riti, tradizioni, usi e costumi risalenti al periodo in cui, anche qui, imperava il culto di Cerere e Diòniso.

Col solstizio d’estate, ancora oggi, si aprono le danze delle feste pagane sui Nebrodi; compromesse col cattolicesimo, hanno l’aria e la parvenza di manifestazioni e culti religiosi, ma in realtà non sono altro che la perpetuazione di quei riti ancestrali che, una volta all’anno permettono all’autentico sentire di manifestarsi liberamente.

La festa rivela un popolo, una cultura, una fede e anche se i ritmi del mondo rurale non esprimono più una cultura sacrale, tuttavia i loro residui appaiono ancora nelle attuali manifestazioni che si fanno veicoli di tradizioni e di cultura. La festa assume caratteri contestativi rispetto alla società odierna, difatti si notano chiaramente un recupero di dimensioni e di valori dimenticati nella società e nella cultura di oggi: il ritorno ai valori originari della propria identità culturale, una partecipazione collettiva nei vari momenti, un superamento dell’individualismo esasperato e una espressione di socialità che realizzano una forma di integrazione e di appartenenza altamente significativa. La Valdemone, intendendo con ciò una delle tre valli in cui la Sicilia un tempo era amministrativamente divisa, dalla dominazione araba al periodo borbonico (Valdemone, Val di Noto, Val di Mazara), è quella che, ricomprendendo nel suo ambito l’Etna, a lungo considerato antiporta dell’aldilà, precisamente punto d’accesso agli inferi, (da ciò il territorio sarebbe stato detto Vallis Dæmonorum) attrae ancora oggi, a partire dalla primavera e per tutto il periodo estivo tantissime persone provenienti da ogni luogo che vogliono, attraverso le tipiche feste locali, rivivere in qualche modo, quel mito lontano.

La festa dei Giudei a San Fratello, che si svolge durante la settimana Santa da centinaia di anni è sicuramente la più spettacolare di tutte; come tutte le feste dionisiache pagane di primavera, esalta l’energia vitale della natura e degli uomini che si sprigiona con la rinascita annuale della natura,con un forte spirito orgiastico, scanzonato, anche delatorio ed esagitato, in una commistione fra sacro e profano. Gli strani personaggi che la rappresentano, abbigliati in modo appariscente con giubbe rosse, gialle e pantaloni dai colori sgargianti, indossano delle maschere grottesche dalle quali fuoriesce, a seconda dei casi, una lingua nera, una coda animalesca, simboli strani che vengono portati in giro per il paese con schiamazzi e suoni di trombe, campanacci e catene, sbeffeggiando e molestando tutti, anche le più ortodosse e compunte processioni.

La festa “du muzzuni” si svolge durante il solstizio d’estate ad Alcara li Fusi da quattromila anni e per questo è considerata la festa più antica d’Europa; conserva anch’essa i riti di propiziazione della fecondità dell’uomo e della natura, che nell’antichità si celebravano in onore di Demetra e Adone, al sopraggiungere del nuovo raccolto. Espressione della visione ciclica della vita, che è tipica delle culture agricole, il culto di Adone consisteva essenzialmente nel rito della falloforia (muzzuni) e nella preparazione dei giardini di Adone ( i lavuri) da parte delle giovani donne cui era caro il dio. Il “muzzuni” consiste in una brocca dal collo mozzato da cui fuoriescono garofani, spighe di lavanda, germogli di grano, e viene rivestito da un fazzoletto colorato e dai gioielli di famiglia raccolti nel vicinato che costituiscono il corredo delle spose contadine. Ogni quartiere allestisce il suo “muzzuni” che viene posto su un tavolo interamente rivestito dalle “pezzare”, le coloratissime coperte tessute al telaio e le tovaglie ricamate.

Gruppi di persone visitano i vari altarini dei quartieri e trascorrono il tempo suonando e cantando antiche strofe dialettali. Il “muzzuni”, venerato come un Santuario, diventa simbolo delle aspettative contadine per un raccolto abbondante; la sua ricorrenza è sempre stata legata a strani fenomeni dai quali si potevano trarre previsioni per il futuro: la rugiada della notte tra il 23 e il 24 giugno veniva ritenuta benefica per gli uomini e per gli animali e si racconta che in quella notte si potessero avvertire voci misteriose e luci che giravano attorno ai campanili.

La Chiesa ha voluto legare a questa celebrazione della rinascita della vita la cerimonia che ricorda la decapitazione di san Giovanni Battista, piegando all’ideologia cristiana il senso dei culti solari; nonostante ciò e malgrado la mescolanza rimangono evidenti le componenti specificatamente pagane.

Ma la festa dionisiaca che le racchiude metaforicamente tutte è forse quella in onore di San Teodoro, celebrata a Sorrentini, la più antica e la più strana borgata del pattese. Piantata a mezza costa del Melinso, con le sue case sparse alla rinfusa e prive di qualunque linearità architettonica, ha una breve piazza che è la più umile e la più suggestiva dell’intero territorio. Nella Chiesa Madre, al posto d’onore, troneggia la statua del santo scolpita nel legno; un’opera di discreta fattura ma che possiede invero requisiti sufficienti ad esaltare la grande fede di quel contado. La sua festa si celebra la prima domenica d’agosto e, come ha scritto G. Mellina Ocera, “fanatismo e barbaria si fondono in riti in cui la fede assurge alla potenza d’un mistero dionisiaco”.

Nessuno riesce a scoprire dove finisce la commedia umana per un istintivo, primordiale bisogno di clamore e dove cominci l’autentica follia della moltitudine che attende, disperatamente infatuata, il compiersi del miracolo, il segno della suprema comprensione del santo martire. La notte della vigilia, su per i sentieri vaga ininterrottamente una lunga teoria di fedeli che regge in mano fiaccole accese; è la processione dei pannusi ( ddisa o ampelodesma che cresce rigogliosa in quei luoghi e che ad agosto è sufficientemente secca per ardere), dando luogo a uno spettacolo notturno carico di energia con una evocazione da tregenda, i bagliori rosseggianti trasfigurano i volti di quella moltitudine che va come insinuandosi tra gli alberi. Alla fine della lunga processione si torna alla Chiesa Madre dove viene acceso un grande falò con le fiaccole residue e attorno ad esso si inizia una danza al suono della tradizionale musica di San Teodoro girando, ora in un senso, ora in un altro, fino al finale salto sul fuoco. (a sinistra, la festa di San Teodoro)

La danza vorrebbe ricordare il martirio del santo, morto sul rogo, in realtà ha una valenza non proprio cristiana: vengono richiamati antichi riti propiziatori caratteristici delle comunità agresti e, probabilmente, legati al culto del sole, come testimonierebbero alcuni reperti di epoca greco-romana rinvenuti a Sorrentini e nella vicina Gioiosa Guardia.

Quando il sole sorge uno sparo potente indica che il Santo sta per uscire dalla chiesa per intraprendere il suo interminabile viaggio attraverso viuzze, sentieri, scale e dirupi; mentre la banda suona una speciale tarantella (che si fa risalire allo stesso santo), gli uomini si accostano alla vara della statua: si deve uscire dalla porta centrale in un unico slancio, senza incertezze nel superare l’ostacolo (vero o finto) che può pararsi davanti alle stanghe della vara che vacilla, ondeggia, arretra, avanza e riprende la corsa come un possente ariete medievale. Per l’occasione non mancano gli indemoniati i quali si accostano al santo con uno sguardo attonito, spinti dalla folla che grida e tumultua e quando non ce ne sono c’è sempre un buon fedele che si presta a fare lo spiritato; l’invasato poi, vero o finto, viene trascinato ai piedi del santo lacero e con la bava alla bocca, gli occhi stravolti mentre la folla grida: “Santu Todaru! Libiralu! Libira la criatura!” Guai al santo se non ubbidisse all’invito perentorio, correrebbe il rischio di essere investito dalle più turpi ingiurie piuttosto che essere laudato: il miracolo quindi deve compiersi e si compie. Il santo esce finalmente e sotto il sole che lo dardeggia sta al cospetto della folla dei suoi fedeli che s’accosta alla bara riverente e commossa, per toccare il legno scuro, per carezzare i fiori che l’adornano.

Per tutto il giorno il santo, portato a spalla e conteso dalla folla gira per quelle viuzze come in una interminabile giostra vorticosa, soffermandosi ad ogni casa davanti alla quale i portatori ricevono le generose offerte, in denaro ma per antica costumanza insieme a grandi fiaschi di vino di strane forme dalle quali a garganella, bocche avide a mai sazie traggono nuovo vigore e più viva fiamma d’entusiasmo. Il giro viene ripreso e si ripete ancora e ancora; le scene che si succedono sono tra le più varie e qualche volta di una tenerezza toccante. Molti vecchietti attendono davanti la porta che il santo passi per donare una gran bella pianta di basilico (dono considerato regale, basileus vuol dire Re) e spesso dicendo ad alta voce: “Beddu.. Beddu!.. Pi ‘ te la sarvai sta bedda grasta di bacinicò!”.

Così il Santo riprende il suo interminabile giro tra campane squillanti e la danza dei portatori e della banda ormai alticci, facendo sfoggio di dissonanze dodecafoniche fuori programma. A mezzogiorno le campane sembrano impazzite e convulse: i portatori e i fedeli tutti abbandonano il santo su una via qualunque: è l’ora del pasto pantagruelico a base di maccarruni cu puttusu e pecora al forno e vino ancora vino fino all’ubriachezza.

Come un avamposto della memoria dionisiaca posto a seicento metri sul livello del mare, in quei muti miraggi d’orizzonte dispersi in perimetri di esiliata felicità dal gioco di correnti senza meta, sta il sogno del Re taumaturgo, della liberazione dalla possessione, dalla follia, un sogno blasfemo di rinascere alle sconfitte, ultime eresie trasfigurate del pensiero.

Nel cristianesimo, che si è sviluppato nella direzione apollinea, il vino ha perso la sua forza originaria: le piccole quantità che ne vengono consumate non bastano a generare quell’entusiasmo ebbro in cui l’uomo può sperimentare una potenza divina che lo incanta, e poiché la Chiesa ha represso il dionisiaco lasciandone in vita solo pochi resti, non sorprende che in molte sette del Valdemone esso svolga invece un ruolo significativo; questa tradizione si estende dai culti gnostici fino ai movimenti pentecostali e protestanti, confluendo in qualche caso nelle cosiddette “Messe Nere”, di cui recentemente si è avuta notizia di qualcosa del genere accaduta a Gioiosa Marea; eventi che sono semplicemente dissacratori e di cattivo gusto ma in molti casi innocui, dove l’elemento ebbro-orgiastico vi assume una posizione rilevante. Cerimonie oscene e dissacratorie, luci di candele ed erbe inebrianti bruciano dinanzi a un altare dove i crocifissi vengono capovolti e bruciati anch’essi, fino al sacrificio di animali, a danze rituali che possono sfociare in orge, parodie di preghiere e sostituzione del vino da messa con whisky scozzese fino a che le emozioni si addensano come nuvole. Ma è soltanto uno spiraglio di visibile che semmai rimanda a un “invisibile e sotterraneo” composto da una inalienabile volontà di segretezza che si traveste ora di “fratellanza” massonica, ora di culti e pratiche sottese e più vive che mai.

 


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