Ventanni fa, a palermo, venivano assassinati paolo borsellino e gli uomini e le donne della sua scorta. Allora si pensava a una strage di mafia. Oggi abbiamo la certezza, quasi matematica, che si è trattato di una strage di stato.
Paolo Borsellino, la strage di Stato vent’anni dopo
Ventanni fa, a Palermo, venivano assassinati Paolo Borsellino e gli uomini e le donne della sua scorta. Allora si pensava a una strage di mafia. Oggi abbiamo la certezza, quasi matematica, che si è trattato di una strage di Stato.
Tra la fine degli anni 60 e i primi anni 70 del secolo scorso, un parlamentare nazionale socialista che faceva parte della prima commissione parlamentare dinchiesta sulla mafia, Simone Gatto, dopo aver ascoltato centinaia di testimoni e dopo aver letto migliaia di documenti, era arrivato alla conclusione amara che, in Italia, il vero brigante era lo Stato. E mai, da allora fino ai nostri giorni, un giudizio più esatto – sullo Stato italiano – è stato formulato.
Stato brigante, insomma. Uno Stato che si rifiuta categoricamente di fare i conti con se stesso, con il proprio operato. Con i morti che, ancora oggi, cercano verità e giustizia. Male non fare, paura non avere, recita un vecchio adagio frutto di millenaria saggezza popolare. In Italia, invece, ancora oggi, a distanza di ventanni dalla strage di via DAmelio, cè chi ha paura: la paura che la verità venga a galla. Soprattutto dopo che, a fatica e con spaventosi ritardi, la magistratura ha scoperchiato un orribile depistaggio di Stato che, proprio a proposito della strage di via DAmelio, aveva portato in galera gente che con la medesima strage centrava poco o nulla.
A distanza di ventanni dalla terribile esplosione di domenica 19 luglio 1992, dalla cosiddetta mafia abbiamo saputo tutto quello che cera da sapere. Quello che i mafiosi avevano da dire, vuoi perché si sono pentiti, vuoi perché sono stati messi alle strette, lo hanno detto. Oggi, per ricomporre lultimo tassello di una stagione sulla quale, piaccia o no, si fonda lattuale politica del nostro Paese, mancano le testimonianze degli uomini dello Stato. Sono loro, e non i mafiosi, i protagonisti dell’omertà. Omertà di Stato a ventiquattro carati.
Proprio in questi giorni il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, si è rivolto alla Corte Costituzionale. Al capo dello Stato non è andato giù il fatto che la magistratura abbia registrato e allegato agli atti dellinchiesta sulla trattativa – o sulle trattative – tra Stato italiano e mafia le chiacchierate telefoniche tra lo stesso Presidente della Repubblica e lex Ministro, Nicola Mancino.
In questo conflitto di attribuzione sollevato da Napolitano è interessante notare un dato: non si parla del significato delle parole – gravissime – pronunciate dallex Ministro Mancino, ma del fatto che tali registrazioni telefoniche siano state allegate agli atti di una vicenda giudiziaria e rese pubbliche, così come consente il nostro ordinamento. Come nel Tartuffo di Molière, è il pubblico scandalo che offende la morale e peccare in segreto è come non peccare.
A distanza di ventanni notiamo che la casta del nostro Paese – con lex Ministro Mancino in testa – si difende e difende le proprie-improprie prerogative di immunità.
Sarebbe ingiusto, però, chiamare in causa il solo Mancino. Ci sono altri autorevoli smemorati che, dopo ventanni, hanno prodigiosamente ritrovato la memoria. Sono in tanti: politici e alti burocrati dello Stato. Hanno cominciato a parlare – guarda che caso – dopo che il figlio di Vito Ciancimino, Massimo, ha cominciato a raccontare quello che ricorda di quegli anni. E importante la sequenza degli avvenimenti.
Dopo che Massimo Ciancimino comincia a parlare, ecco che, piano piano, i ricordi sopiti per anni tornano alla memoria dellex Ministro Claudio Martelli, dellex Ministro, Giovanni Conso, dellex Ministro, Calogero Mannino, dellex Ministro, Carlo Vizzini, del già citato ex Ministro Mancino, di Luciano Violante e di qualche alto burocrate di Stato che, in quegli anni, era stato trattato male: quel Nicolò DAmato, allora ai vertici del Dap (Dipartimento affari penitenziari), destituito per volontà dellallora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro (altro protagonista che oggi non può parlare perché passato a miglior vita).
Oggi DAmato, allora messo da parte perché non ne voleva sapere di togliere dal carcere duro i mafiosi, dice che la trattativa tra Stato e mafia cè stata.
Oggi, i più arguti ossservatori, sostengono che ci sarebbe una contraddizione nella ricostruzione della trattativa – o delle trattative – tra Stato e mafia. La sequenza illogica, che si snoderebbe tra il 1992 e il 1993, sarebbe la seguente: inizio della trattativa, revoca del carcere duro ai mafiosi da parte dello Stato, bombe di Firenze, Roma e Milano. Se i mafiosi avevano ottenuto dallo Stato la revoca del 41 bis perché mai avrebbero duvuto seminare le bombe per le città del nostro Paese?
La domanda non è illogica. Ma parte da un presupposto non verificato. Infatti, se le richieste dei mafiosi riguardavano soltanto la revoca del carcere duro, la domanda sarebbe logica. Ma noi non sappiamo cosa chiedevano i mafiosi oltre alla revoca del carcere duro. Le bombe di Firenze, Roma e Milano, ad esempio, potrebbero essere servite a convincere lo Stato italiano a cedere su altri campi. Quali? Lì sta il mistero.
La nostra, ovviamente, è una tesi. Ma anche la prima è una tesi. Per passare dalle supposizioni alla verità dovrebbero essere gli uomini dello Stato a raccontare quello che sanno. Ma, a giudicare dalle parole pronunciate al telefono dallex Ministro Mancino, non sarà facile, per gli inquirenti che indagano sulla trattativa – o sulle trattative – tra Stato e mafia arrivare alla verità. Perché Mancino non parla. Ma ha paura.
A distanza di ventanni da quei tragici eventi, due dati, oggi, sembrano assodati. Il primo è che, per la prima volta nella storia delle stragi di Stato della Repubblica italiana – perché lItalia, piaccia o no, è anche una Repubblica fondata sulle stragi impunite, da Portella della Ginestra fino ai nostri giorni – lo Stato brigante non riesce a celebrare una propria vittima.
Cè una ritualità quasi antropologica, nella politica criminale del nostro Paese. Unesigenza, a tratti fisica, di celebrare le proprie vittime, quasi che, ricordandoli con manifestazioni ufficiali, bande, marce, corone di fiori e raccoglimenti, il potere tragga da tali riti la linfa per continuare a nascondere la verità e a perpetrare altri crimini.
Salvatore Borsellino, il fratello del magistrato ucciso nella strage di Stato del 19 luglio del 1992 – caso unico – impedisce da anni alle autorità di celebrare questo rito cannibalesco. Il feed bach antopologico sta creando molto fastidio al mondo criminale e politico del nostro Paese. Perché, per la prima volta, lo Stato brigante ha perso, nel proprio territorio delezione – cioè a Palermo – la possibilità di manifestare la propria forza.
Palermo è una delle più importanti capitali della mafia nel mondo. Di quella mafia che diventa Stato. Noi tutti – soprattutto noi palermitani – sappiamo benissimo, ad ogni ricorrenza di un delitto di Stato, che tra coloro i quali si precipitano a celebrare la vittima ci sono, con molta probabilità, i mandati di questi atti di Stato efferati.
Dalla strage di Portella delle Ginestre ai nostri giorni – passando per la strage di Ciaculli, gli anni 60. gli anni 70, gli anni 80, gli anni 90 – questi signori arrivano dalle nostre parti tra corone di fiori e silenzi di circostanza, si raccolgono in preghiera (sperano di andare in Paradiso? si sbagliano: lInferno li attende a cosce aperte) e celebrano. E poi se ne vanno ad organizzare chissà quali altri misfatti.
E un gioco macabro. Noi qui Palermo lo sappiamo. Loro a Roma pure. Se questo gioco sinterrompe, il potere sindebolisce. Perché la gente, a Palermo – cioè nella capitale mondiale della mafia – non vedendo più in prima fila il potere celebrante, capisce che qualcosa si è spezzata.
Non è un caso se qualcosa – finora solo qualcosa – del castello criminale costruito dal potere per nascondere la verità sulla strage di via DAmelio comincia a cedere. Per ora, lo ripetiamo, è solo qualcosa: un qualcosa che si è materializzata prima nella scoperta del depistaggio di Stato sulle indagini per la strage di via D’Amelio e, poi, nella paura telefonica dellex Ministro Mancino.
Cè, infne, il secondo dato. A distanza di ventanni tutta la verità sulla trattativa – o sulle trattative – tra Stato e mafia è affidata alla magistratura e non alla politica. La politica – a parte qualche telefonata che non è stata casuale, ma è stata, come ha ben detto Salvatore Borsellino, una chiamata di correo – non collabora. E impaurita e si chiude a riccio.
Ma la partita, nonostante gli omissis, non è chiusa. Anzi.
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