Il razzismo ebraico firmato Yehoshua

Abraham B.Yehoshua, scrittore ebreo nato a Gerusalemme, classe 1936, insegna letteratura comparata presso l’Università di Haifa. Intellettuale “progressista” osannato e apprezzato in patria e nel mondo, simbolo del pacifismo equidistante tra israeliani e palestinesi, scrittore intelligente e prolifico, ha visto tante sue opere pubblicate e tradotte in varie lingue, in Italia da Einaudi, che, oltre ai suoi romanzi ha anche pubblicato i saggi “Il potere terribile di una piccola colpa, Etica e letteratura” (2000), “Diario di una pace fredda” (1996), “Antisemitismo e sionismo” (2004), e la raccolta “Il labirinto dell’identità. Scritti politici” (2009).

Di lui, Anthony Grafton, giornalista della The New York Rewiew of Books, ebbe a dire che si tratta di un uomo che “mostra come l’immaginazione più della memoria sappia ricostruire le storie dell’anima umana, suggerendo che da elementi tanto fragili come l’amore e la speranza potrebbe sorgere un futuro difficile ma vivibile”.

In questa definizione c’è tutto il Yehoshua che conosciamo, quello con una marcia in più, con grandi capacità di supervisioni, con voli letterari iperbolici e discese in picchiata verso il cuore dell’uomo, colui che ha saputo definire storie sociali o individuali come dipinti che sono rimasti per sempre nella nostra memoria, lo scrittore ammirato per i contenuti, oltre che per la capacità stilistica e psicologica.

E’ di ieri però su “La Stampa” un lungo e articolato suo intervento che ha voluto chiarire (e il suo punto di vista ritengo sia stato letto con attenzione da molti suoi estimatori assetati di verità, come fosse il Verbo) la situazione del suo Paese, Israele, ma anche Paese nostro per certi versi, cioè “del mondo”, dall’antropologia (ebrei erranti), alla religione (Gesù e il cristianesimo) al Premio Nobel (attribuito, fin da quando è stato concepito, a moltissimi ebrei e in tutti i campi del sapere, dalla fisica alla letteratura).

Riporto letteralmente alcuni brani dell’intervista: “I Residenti (israeliani) che aggrediscono gli immigrati (africani) – (definiti da lui stesso più diplomaticamente “infiltrati”, come dire non più persone ma “problema”) – nelle periferie delle città israeliane non sono razzisti. Se Israele non bloccherà l’invasione sarà uno tsunami africano. Sono solo residenti ai quali il governo non dà risposte. Il problema non è che gli infiltrati sono neri e africani, se fossero albanesi o romeni – afferma Yehoshua – subirebbero lo stesso trattamento”.

Quindi alla domanda su quale possa essere la soluzione, secondo il suo parere, l’indignato scrittore ha risposto candidamente che ci vorrebbe innanzitutto un muro (di hitleriana memoria!) per impedire agli infiltrati di oltrepassare la sacra frontiera di Israele da Gaza; e poi i rimpatri – cioè le deportazioni degli immigrati in quei Paesi dai quali scappano per mille ragioni.

“Contro lo ‘tsunami’ di infiltrati africani – suggerisce ancora Yehoshua – sarebbe opportuno rispolverare i meno problematici manovali palestinesi, visto che parlano addirittura l’ebraico. A condizione però che a lavoro finito se ne tornino nel loro ghetto nella Striscia di Gaza”.

Forse che da questa ultima concessione ai lavoratori-schiavi palestinesi potremmo ancora riconoscere il progressismo di un personaggio come Yehoshua? Certo, i falchi della destra sionista sono da sempre stati fautori dell’espulsione dalle loro terre dei palestinesi o quantomeno di una specie di ergastolo collettivo e perenne, mentre i progressisti alla Yehoshua si accontentano della “semilibertà”…

“I membri delle organizzazioni per i diritti civili e di vari gruppi di sinistra”, continua Yehoshua, “tendono a definire razziste e xenofobe le proteste dei residenti locali. Poiché la storia ebraica, specialmente durante la seconda guerra mondiale, è zeppa di storie di sofferenze di rifugiati, si ha la tendenza ad associarla al problema degli emigrati africani e ad interpretare le proteste dei residenti come odio verso la gente di colore. Non credo che questo sia vero. Anche se questi infiltrati fossero di pelle bianca, albanesi o provenienti dalle regioni del Caucaso, le proteste dei cittadini locali sarebbero dello stesso tenore. E la richiesta alle autorità, nazionali e municipali, di trovare una soluzione che non danneggi ulteriormente le fasce più deboli della popolazione è dunque giusta e non razzista”.

La soluzione, per l’opinion leader, sembra rimanere quella già citata, cioè innanzi tutto “bloccare la frontiera col deserto”, cosa che sta già rapidamente avvenendo.

“Un secondo passo sarebbe attuare una chiara distinzione tra rifugiati che arrivano in Israele per salvarsi e gente in cerca di lavoro. In base ad accurati controlli, il numero dei rifugiati con diritto di asilo politico fra i circa 70 mila clandestini africani attualmente presenti in Israele è molto ridotto. I veri rifugiati dovrebbero essere trattati secondo le norme della Convenzione sui rifugiati delle Nazioni Unite, dovrebbero essere garantiti loro il permesso di soggiorno, un’assicurazione sanitaria, un lavoro e alloggi adeguati, senza che tutto questo vada a scapito dei residenti locali. Il resto degli infiltrati dovrebbe essere rimpatriato in accordo con le autorità dei loro paesi d’origine.

“I lavoratori palestinesi,” insiste nelle sue dichiarazioni, “conoscono Israele e parlano l’ebraico. A causa della breve distanza tra Gaza e il sud del Paese (compresa Tel Aviv) questi lavoratori, la sera, potrebbero tornare alle loro case e alle loro famiglie ed evitare così la pericolosa e alienante situazione di migliaia di africani senzatetto che vagano di notte per le strade delle città. I palestinesi possiedono una chiara identità e sarà loro garantito un salario equo, non da fame. E come parte del salario avranno diritto alla previdenza sociale, come in passato. L’obbligo morale di Israele è di dare lavoro a questi palestinesi nel proprio territorio, in passato parte della Palestina, e contribuire così a migliorare indirettamente la situazione economica della Striscia di Gaza. (…)”.

“Dal momento che Israele è un paese gradevole dal punto di vista climatico, africani , palestinesi, arabi, non hanno difficoltà a dormire nei giardini pubblici, a stendere lenzuola su marciapiedi o in androni di case povere o ad accalcarsi, intere famiglie, in minuscoli appartamenti, indebolendo così ulteriormente la già fragile infrastruttura delle periferie delle città israeliane, in particolar modo quella di Tel Aviv. (…)”.

Vero è che, per una parte degli israeliani, il conferimento della cittadinanza ai palestinesi costituisce una minaccia all’identità ebraica dello Stato; non credevamo fosse questo il pensiero di un illuminato “equidistante” come Yehoshua che in questo intervento ci ricorda Maroni, pacato e determinato; una grande delusione, perché si tratta comunque di un razzismo dal doppio stigma: quello dello straniero (di atavica memoria) e quello del pericolo (da combattere qui e ora).

A sostegno di ciò anche una recente sentenza della Corte Suprema d’Israele che, assecondando le tendenze retrograde e reazionarie presenti nel Paese, ha respinto un ricorso presentato da “Adalah”, un’Associazione che si batte per i diritti della minoranza araba di Israele, lasciando in vigore una misura che nega la naturalizzazione automatica dei coniugi di cittadini israeliani, in larga misura di origine palestinese.

Per la maggioranza, la naturalizzazione dei palestinesi tramite il matrimonio rappresenta una minaccia per la sicurezza: per questo, nelle parole della sentenza, “il diritto di costruire una famiglia non deve necessariamente realizzarsi all’interno dei confini di Israele”. Infierisce in particolare il giudice Asher Grunis che ha votato con la maggioranza, secondo il quale “i diritti umani non possono essere una ricetta per il suicidio della nazione”.

Diametralmente opposta è stata invece l’opinione della minoranza, espressa dalla Presidente della Corte, Dorit Beinisch, per la quale “la legge andrebbe soppressa, poiché viola il diritto di uguaglianza”.

Le reazioni alla sentenza da parte della società civile e di alcuni politici dell’opposizione in Israele prevedibilmente sono state molto dure. Per la parlamentare del partito di sinistra Meretz, Zahava Gal-On, la quale aveva partecipato alla presentazione del ricorso, “il verdetto rappresenta una macchia indelebile per Israele”. Secondo Adalah, poi, l’Alta Corte ha approvato una legge che “non esiste in nessun Paese democratico del pianeta” e che “proibisce ai cittadini di avere una famiglia in Israele unicamente sulla base della loro appartenenza etnica”. Inoltre, per la stessa Associazione, questa sentenza dimostra come “i diritti civili della minoranza araba in Israele siano stati erosi in maniera pericolosa e senza precedenti”.

Ma gli arabi, verrebbe da sottolineare, costituiscono ormai circa un quinto degli oltre sette milioni di abitanti di Israele. Altri tre milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania e a Gaza, e numerose sono le famiglie che sono state divise da linee di demarcazione artificiali stabilite dopo le guerre tra israeliani e palestinesi; nonostante ciò, i matrimoni tra gli arabi che risiedono da una parte e dall’altra del confine sono comunque molto diffLega, Maroni, usi. Una situazione tragica che sembra attualizzare la storia recente dell’Est europeo tra serbi e croati, così ben definita in quel film del registra greco Papadopulos “Il passo sospeso della cicogna”, dove la linea di demarcazione, piuttosto che il muro di Yehoshua, era un ponte, con tanto di “frontiera” al centro.

Siamo a un razzismo doppiamente discriminatorio – una privazione assoluta dei diritti nei confronti della popolazione palestinese e una privazione di diritti relativa nei confronti di quei settori di popolazione ebraica proveniente da Paesi del terzo mondo – in una nuova teoria organica, un’ideologia trasversale che identifica ogni diverso come un corpo estraneo da combattere, un nemico da abbattere. Finora avevamo letto le xenofobe dichiarazioni dei leader ortodossi e dell’estrema destra sionista istiganti le folle contro gli immigrati dal canto loro stipati nei tuguri delle periferie di Tel Aviv; gli aggiornamenti ci parlano di situazioni che riproducono, né più, né meno, lo zoccolo duro di un razzismo universale uguale dal Giappone agli Stati Uniti, dal Sudafrica all’Arabia Saudita all’Italia (le “ronde” padane) ad Atene, e il refrain è sempre lo stesso: “Gli immigrati ci rubano il lavoro, gli immigrati sono sporchi, gli immigrati compiono crimini, gli immigrati minacciano la nostra identità…”.

Mi verrebbe da dire al caro Yehoshua: sei rimasto incagliato nelle secche di un pensiero di casta oramai sterile; la prossima lectio magistralis falla ai tuoi ignavi studenti di Haifa, o tienila per te.

Foto di Yehoshua tratta da bibliotecadisraele.wordpress.com

Foto in alto a destra tratta da amicidisraele.org

Foto carta geografica a sinistra tratta dalaltralombardia.it

Foto immigrati in basso a destra tratta da altocasertano.wordpress.com

 

 

 


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