I quattro indagati, nei confronti dei quali non sono state emesse misure cautelari, tra la fine del 2019 e il 2020 avrebbero cercato di costringere un rivenditore di pezzi di ricambio a saldare un vecchio debito da 30mila euro. I nomi e le intercettazioni
Mafia, i rapporti tra i Cappello e l’uomo di Messina Denaro Viaggi a Marsala per recuperare credito di un imprenditore
C’è anche un filone catanese nell’inchiesta della Dda di Palermo che ha portato oggi all’arresto di 35 persone nel Trapanese. Il blitz dei carabinieri ha colpito ancora una volta soggetti che a vario titolo sono accusati di essere legati a Matteo Messina Denaro, il boss di Castelvetrano la cui latitanza va avanti ormai da quasi trent’anni. Tra coloro che sono finiti in carcere c’è Franco Raia, 54enne ritenuto ai vertici della famiglia mafiosa di Marsala. L’uomo, tra la fine del 2019 e la prima metà del 2020, sarebbe stato il riferimento per un gruppo di esponenti del clan catanese Cappello-Bonaccorsi. Si tratta di Giovanni Crisafulli, 44enne con precedenti per reati in materia di droga, Massimiliano Lizzio, già condannato per mafia e di recente sottoposto alla sorveglianza speciale, e poi di Luciano e Santo Guzzardi. I due, padre e figlio, sono stati tra i protagonisti dello scontro a fuoco avvenuto nel 2020 in viale Grimaldi, tra i clan Cappello e Cursoti, e per quei fatti sono stati condannati in primo grado rispettivamente a 16 anni e 15 anni e quattro mesi.
Per i magistrati palermitani, i quattro catanesi – nei confronti dei quali il gip non ha disposto misure cautelari – sarebbero stati impegnati nel tentativo di recuperare un presunto credito da oltre 30mila euro vantato da un imprenditore siracusano. A pagare la somma sarebbe dovuto essere il titolare di un’officina di Marsala, specializzata nella rivendita di pezzi di ricambio. Gli investigatori hanno monitorato diverse trasferte in territorio trapanese, in una delle quali Raia si sarebbe presentato a Lizzio come uomo di Messina Denaro. «Io faccio parte di Matteo», è la frase che, stando alla ricostruzione di Lizzio, avrebbe pronunciato il marsalese. In più di un caso le telecamere nascoste hanno ripreso gli indagati, all’interno di bar ed esercizi commerciali, intenti a discutere dell’esigenza di costringere la vittima a saldare un debito che il diretto interessato negava di avere.
La resistenza al pagamento, nonostante l’abbassamento delle pretese fino a 14mila euro, avrebbe creato diversi momenti di tensione portando gli esponenti dei Cappello a ipotizzare di intervenire direttamente sull’imprenditore marsalese, aggirando il protocollo mafioso che imponeva di fare riferimento alla locale famiglia di Cosa nostra. Il clan etneo lamentava l’incapacità dei marsalesi di convincere la vittima a cedere alle pressioni. «Senza offesa, Massimo (Lizzio parla di sé in terza persona, ndr) – si legge nell’ordinanza, in un passaggio in cui è riportato un dialogo con Crisafulli – quando corrisponde per una persona, oppure dice “ci piglia a buono per una persona” (garantisce per una persona, ndr) e quella persona mi fa fare brutta figura, non ti dico che prende i soldi e li mette di tasca, ma a quello gli rompo tutte le corna, perché mi sta mancando non di rispetto a me, non solo…»
Tuttavia, i numerosi viaggi, i contatti con gli uomini vicino a Raia e persino il proposito di Lizzio di andare nella rivendita e di impossessarsi come ritorsione di un camion – «io mi scendo un mezzo ed è finito il film» – non avrebbero mutato il quadro generale. Al punto che il presunto creditore, nella primavera del 2020, avrebbe desistito dalla propria pretesa. «Il 13 maggio – ha ricostruito il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Palermo – lo spyware inoculato nel dispositivo cellulare in uso a Giovanni Crisafulli consentiva di intercettare un dialogo fra lo stesso e Massimiliano Lizzio […] Lizzio riferiva che (il creditore) aveva manifestato la perdita di interesse per il recupero della somma di denaro e si era in qualche modo discostato dalla vicenda». Davanti a quella novità, Lizzio avrebbe reagito sottolineando all’uomo che, per il disturbo, avrebbe comunque dovuto pagare tremila euro al clan.