Mafia, la passione dei Messina Denaro per l’archeologia I piani per rubare l’Efebo e il Satiro e il ricatto allo Stato

Il Satiro danzante, l’Efebo di Selinunte e tutta l’area archeologica vicina a Castelvetrano, meta ogni anno di milioni di turisti. Un tesoro per la Sicilia e per l’umanità, una mammella a cui attingere anche per Cosa Nostra. Nel territorio dei Messina Denaro, per anni la mafia ha fatto affari con i beni archeologici, non solo grazie ai numerosi tombaroli – tra cui si annoverano i fratelli Viola, Vincenzo Barraco e altri – ma anche attraverso chi era in grado di piazzare i reperti sul mercato europeo e internazionale. Mediatori, tra cui, secondo la Direzione investigativa antimafia che gli ha sequestrato un enorme patrimonio, spicca Gianfranco Becchina, mercante d’arte e commerciante di olio di Castelvetrano, trapiantato in Svizzera, uscito indenne dalle accuse che gli sono state avanzate in questi anni. Il suo nome ricorre nei verbali di pentiti storici: da Angelo Siino, plenipotenziario di Cosa Nostra nel settore degli appalti, a Vincenzo Calcara, fino ai trapanesi Giuseppe Grigoli e Lorenzo Cimarosa. Dalle loro dichiarazioni è possibile tratteggiare una realtà che a volte sembra scivolare nel romanzo, ma che ha invece al centro alcuni dei nomi più importanti del periodo più sanguinario di Cosa Nostra, chiuso con la morte di Totò Riina. 

«Il vecchio soprattutto aveva questo hobby particolare, perché la sua carriera la iniziò proprio come tombarolo». Così il collaboratore di giustizia Angelo Siino descrive Francesco Messina Denaro, il padre del boss di Castelvetrano che continua a non essere preso. Esattamente come il genitore, il cui cadavere fu fatto trovare bello e pronto per il funerale, coi vestiti puliti, sistemato come se fosse già dentro un feretro. Il vecchio Messina Denaro era l’esperto di archeologia che avrebbe potuto contare su una rete di fidati tombaroli, e su un colpo di fortuna che riporta ai legami con la famiglia del senatore Antonio D’Alì, di cui Francesco Messina Denaro era il campiere (rapporti al centro del processo intentato al politico, prescritto e assolto, e che hanno spinto la Dda a considerare l’uomo forte di Forza Italia pericoloso socialmente). «Il livello sociale dei Messina Denaro era infimo – spiega ancora Siino ai magistrati – in quanto suo padre (il nonno di Matteo Messina Denaro) era bidello, con tutto il rispetto per i signori bidelli, era un bidello particolare. Non è che era chissà che… Poi praticamente loro in una zona bellissima, che peraltro non era di loro proprietà, avevano trovato una serie di reperti archeologici. Questo posto era di proprietà dei D’Alì. C’era un firriato, una sorgente d’acqua calda e diverse grotte, dove mi dissero: “Qua quello che abbiamo trovato è stato veramente incredibile”». 

Un ruolo chiave Francesco Messina Denaro lo avrebbe giocato anche nel furto dell’Efebo di Selinunte, la statuetta del V secolo a.C. ritrovata a fine ‘800 in una contrada di Castelvetrano, che per sei anni – tra il 1962 e il 1968 – sparì, prima di essere recuperata dalla polizia a Foligno dopo uno scontro a fuoco. «All’inizio della sua splendida carriera – racconta Siino – il Messina Denaro padre ebbe a trattare la questione del famoso Efebo selinuntino. E da quel momento in poi, loro capirono che il filone era redditizio, era molto importante, e da lì in poi si sono sempre occupati di reperti archeologici e di arte». Una passione trasmessa da padre in figlio e sublimata da Matteo Messina Denaro, grazie ai suoi contatti internazionali, «agganci romani e svizzeri», li chiama l’ex ministro degli Affari pubblici di Cosa Nostra. E non solo. Dei viaggi della primula rossa in Austria parlano i pentiti, a trovare «una bellissima ragazza austriaca», «ma ne aveva anche un paio di cecoslovacche – ricorda Siino -. Insomma, aveva un po’ di persone, andava spesso fuori Italia». 

E così, a 37 anni di distanza dal furto dell’Efebo, un altro Messina Denaro programma di portare via il Satiro Danzante, in quel periodo esposto a Mazara del Vallo. A raccontarlo è uno degli uomini che avrebbero dovuto portare a segno il colpo, poi sfumato: Concetto Mariano, affiliato della famiglia di Mazara, e collaboratore di giustizia dal 2002. «Nel nostro ambiente veniva chiamato il pupo – racconta – ci era stato detto che aveva un valore commerciale non indifferente, che ognuno dei partecipanti, una volta messo a segno il colpo, avrebbe preso addirittura 200 milioni. Mi venne detto che Matteo Messina Denaro si occupava di questa situazione e ci avrebbe pensato lui, tramite i suoi canali, a farsi rimpiazzare il Satiro Danzante». Seguono appostamenti che però non hanno buon esito. «Mi resi conto – continua il pentito – che a guardia restavano al massimo tre vigili urbani, non era difficile entrare. Però, una volta che già eravamo quasi pronti, abbiamo dovuto desistere perché ci accorgemmo che la gente passava, per cui una volta dentro noi non avremmo avuto più il controllo della situazione, qualcuno avrebbe pure potuto accorgersene e dare l’allarme». Passano alcuni mesi a Andrea Mangiaracina, oggi al 41bis, torna a bussare alla porta di Mariano. «Tornò a parlarci di questa situazione che si doveva assolutamente portare a termine perché Matteo Messina Denaro era ritornato all’attacco». Ma anche il secondo tentativo va male, «perché la strada quel giorno era molta trafficata». Sei mesi dopo il Satiro fu spostato da Mazara del Vallo, facendo svanire il sogno del latitante di Castelvetrano. 

Anche Giovanni Brusca, braccio destro di Totò Riina e poi collaboratore di giustizia, parla dell’attenzione di Cosa Nostra per il mondo dell’archeologia nei primi anni ’90, anche come strumento di pressione sullo Stato italiano. «C’era la possibilità di potere fare uno scambio di materiale – ricostruisce Brusca ai magistrati – cioè dando queste opere d’arte in cambio di permessi, al ché io mi diedi aiuto per potere trovare di questo tipo di materiale. Mi rivolsi a Salvatore Riina e Matteo Messina Denaro. Io non ero competente in materia, mi affidavo a loro; in più Messina Denaro mi ha fatto incontrare una persona, credo che non sia uomo d’onore, però una persona molto vicina a lui». È l’incontro che avviene nella gioielleria Geraci di Castelvetrano. A lungo gli inquirenti hanno ipotizzato che questo ospite – «uno che stava in Svizzera e aveva contatti con mezzo mondo» stando alla descrizione di Brusca – potesse essere proprio il mercante d’arte Becchina, non riuscendo però a trovare mai le prove certe per avvalorare questa tesi. 

Quello che invece è stato accertato è che per anni Castelvetrano è stata una importate centrale di smistamento di un vasto traffico di reperti archeologici, che si snodava tra l’ltalia e la Svizzera. Una logica conseguenza dell’onnipresenza dei Messina Denaro su quel territorio: «Qualsiasi cosa c’era a Castelvetrano che potesse produrre un chicco di grano – chiosa Siino – loro ci mettevano subito le mani».


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