Regionali: Abramo, l’assessore «sociale» di Micari «Chiamato dal centrodestra, ma voglio integrazione»

«Certo che ho tempo per rispondere alle sue domande, ma alle 19.30 categoricamente ho la preghiera con i ragazzi, come ogni sera». Fuori dalla porta della sua stanza si incontra una donna velata che attende. Nel giorno in cui Emiliano Abramo è designato assessore alle Politiche sociali in un ipotetico governo Micari, nella sede della Comunità di Sant’Egidio di Catania, di cui è presidente, nulla è cambiato. Il via vai, come sempre, è quello dei giovani volontari, di persone che cercano aiuto, di migranti. «Micari l’ho sentito stamattina, ho saputo oggi della sua scelta e mi ha fatto piacere, lo conosco da poco ma mi ha subito conquistato umanamente».

Abramo, da diverso tempo lei è corteggiato dalla politica. Perché stavolta ha detto sì?
«Ho conosciuto Micari il 31 agosto e mi è subito piaciuto per la sua semplicità, la pacatezza e per ciò che diceva. Da quel momento abbiamo coltivato il nostro rapporto personale, non legato da un’amicizia anziana ma dalla voglia di conoscersi di più. Mi ha chiamato più volte per chiedere collaborazione sui temi a me cari: l’accoglienza, le periferie, gli anziani, l’invecchiamento della popolazione, la disabilità e le Ipab».

Ad agosto, però, il suo nome era stato fatto anche come possibile candidato presidente del centrosinistra. Perché alla fine questa ipotesi è tramontata?
«È vero, ma da una parte io non ero disponibile, fosse solo perché ero in viaggio di nozze; dall’altra sono state fatte riflessioni più opportune che poi hanno portato alla candidatura di Micari. Io non ho cercato un percorso politico, piuttosto sono affamato di alleati attorno ai temi cari alla comunità di Sant’Egidio».

A parte da Micari, le sono arrivate altre proposte in questi mesi? 
«Come tanti, sono stato contattato da persone della coalizione di Nello Musumeci, con mio grosso imbarazzo perché è evidente che su accoglienza e integrazione ci sono difficoltà programmatiche, di visione della vita e del mondo. C’è una distanza tra quello che io vivo e quello che spesso mi trovo ad ascoltare da Salvini, dalla Lega e da Meloni. Si può dialogare, ma non è il mio schieramento».

Intanto qui alla Comunità il lavoro va avanti come sempre. Su cosa siete concentrati?
«Sull’accoglienza dei migranti e sul tema dell’integrazione, su cosa fare con i tanti che ancora balbettano poche parole di italiano e vogliono restare a vivere qui in Sicilia. Come insegnare loro la lingua, come costruire percorsi di integrazione. A fianco a questo, c’è il problema dei tanti siciliani che vivono in strada, o che magari sono anziani, hanno la casa con i frigoriferi vuoti o non hanno pagato la bolletta della luce. E si riversano in strada per trovare un pasto. Ci dobbiamo interrogare su come trovare più cibo e risposte molte concrete alle domande di tanti anziani, che non vanno però umiliati. La loro dimensione richiede una cura, un’attenzione particolare, perché hanno un’ipersensibilità».

Cosa fate concretamente per favorire questi percorsi di integrazione?
«Abbiamo potenziato il nostro lavoro in strada, abbiamo più persone che dividono i pasti, abbiamo aperto le porte di questa casa per creare centri diurni per gli anziani, prestare le nostre docce, la lavabiancheria. E poi noi crediamo che i migranti che stanno in Sicilia devono imparare ad amare le città in cui si trovano a vivere. E le amano a partire dai loro poveri. Quindi li portiamo a servire la cena a chi vive in strada, a trovare le persone più in là con gli anni negli istituti, ad aiutare i bambini dei quartieri storici che spesso sono quartieri di mafia. E tutto questo lo fanno insieme a ragazzi italiani, questa è integrazione perché nascono amicizie, poi il sabato si va a giocare a pallone e così via».

Intanto si fa di tutto per bloccare gli sbarchi. 
«Siamo preoccupati, non perché vogliamo più sbarchi, ma perché sappiamo di tante persone bloccate in Libia che chiamano i nostri e hanno paura di morire. Purtroppo qualcuno è già morto perché hanno impedito le partenze». 

Quello che ha descritto è un modello che proverebbe a seguire se diventasse assessore? È trasportabile su larga scala?
«Certo! Perché è un modello culturale: l’idea che io “posso fare” ci libera innanzitutto dall’irrilevanza, dall’idea che le cose si debbano subire. Libera dal rischio di diventare neet (chi non è impegnato nello studio, né nel lavoro, né nella formazione, ndr), che sono tantissimi come abbiamo visto dagli ultimi dossier dell’Istat. C’è un patrimonio umano che si è addormentato. Bisogna invece tornare di più a vivere per strada, insieme. Il problema è solleticare le realtà istituzionali, le parrocchie, le associazioni e  intercettare non solo la domanda di chi non ha, ma anche quella di chi ha e non sa come spendere il suo tempo».

“La sicilia accogliente” è rimasta un’etichetta?
«Sì, c’è il rischio che rimanga solo un’etichetta. Rendere i porti inaccessibili, ad esempio, rischia di creare una distanza che raffredda il rapporto con chi emigra. Dobbiamo spiegare non solo l’accoglienza ma l’integrazione, andare oltre alla volontà di cuore di accogliere tutti, ma costruire la società del convivere». 

Questo modello è l’opposto del Cara di Mineo, caldeggiato da una parte politica, quella che fa riferimento ad Alfano, che adesso si ritrova nella sua stessa coalizione. Le crea difficoltà?  
«Il Cara di Mineo non può essere un modello, ma è un contenitore che ha risposto al bisogno di trovare posto a quante più persone. E non è riuscito a soddisfare lo step successivo, l’integrazione. I tempi di attesa sono diventati improponibili, dapprima perché legati al cattivo funzionamento delle commissioni territoriali, e poi a causa dei tanti ricorsi ai tribunali. Adesso credo che la situazione sia più accettabile, ma di certo il modello di accoglienza non può essere quello delle mega strutture».

Se fosse in suo potere, lo chiuderebbe?
«Sì, perché è un modello che risponde alla necessità di dove metterli, non alle domande vitali delle persone». 

Da assessore, si impegnerebbe per l’applicazione di un reddito sociale o reddito minimo?
«Non sono un amante del reddito sociale, il vero problema è dare opportunità di lavoro. Chi se ne va da questa terra è perché non trova lavoro, non perché non trova il reddito minimo. Che non genera ricchezza e dimensione del futuro, ma il fatto che forse riesco a mettere insieme il pranzo con la cena. Detto ciò, ci sono delle fasce più deboli che devono essere necessariamente sostenute, ma in maniera transitoria e in momenti precisi, altrimenti si rischia l’assistenzialismo». 

Si dice che lei abbia un rapporto speciale con papa Francesco. 
«Il mio è un rapporto di simpatia e discepolanza. Noi verremo ricordati come i contemporanei di papa Francesco per la sua forza di umanità, per il coraggio e la chiarezza nel dire le cose. Ho avuto modo di incontrarlo più volte e chiacchierare con lui su alcuni temi, non ultimo quello dell’integrazione».


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