Vincenzo Artale, da vittima racket a estorsore «Lo Stato gli diede 200mila euro per ripartire»

«
Monopolio del calcestruzzo? In realtà sapevo che aveva problemi economici». Non ha dubbi Vincenzo Lucchese, ispettore di polizia e presidente dell’associazione antiracket e antiusura di Alcamo, di cui faceva parte anche Vincenzo Artale, l’imprenditore 64enne arrestato questa mattina nell’ambito dell’operazione Cemento del Golfo. L’ultimo caso di una figura dell’antimafia accusato di fare affari con Cosa nostra. Artale, secondo gli inquirenti, negli ultimi anni aveva acquisito, con la società Inca sas, una posizione di monopolio nell’hinterland di Trapani, riuscendo a diventare fornitore di cemento per le aziende edili che lavoravano sia nel privato che nel settore pubblico. Una leadership che sarebbe stata ottenuta grazie al sostegno della famiglia mafiosa di Castellammare di Stabia, guidata da Mariano Saracino. Estorsioni e minacce che sarebbero servite a convincere gli imprenditori a scegliere il calcestruzzo di Artale.

Della forza economica del 64enne, tuttavia, non è convinto Lucchese, che dichiara di aver sentito l’ultima volta Artale proprio ieri sera: «
Mi ha chiamato chiedendomi di incontrarci perché doveva farmi vedere delle carte – spiega il presidente dell’associazione a MeridioNews -. Gli avevo dato appuntamento per questa mattina, ma non c’è stato modo visto che è stato arrestato». Secondo Lucchese, il potere di Artale non era così evidente: «Mi ha spesso parlato di problemi con le banche, avevamo anche pensato di cercare un modo per aiutarlo», continua. 

L’imprenditore era entrato nell’associazione in seguito alle
denunce fatte a metà anni Duemila, quando le parole di Artale furono utili a carabinieri e polizia per portare a compimento l’operazione Cemento Libero – Abele. Quell’inchiesta fece luce sulle attività criminali della famiglia mafiosa di Alcamo, che tra il 2006 e il 2008 fu protagonista di diversi attentati contro imprenditori edili, ai quali bisognava imporre proprio le forniture di cemento. Una storia che si ripete adesso, ma nella quale Artale avrebbe avuto un ruolo diverso. Dieci anni fa, infatti, l’imprenditore fu tra coloro che denunciarono le estorsioni: «Gli avevano bruciato due betoniere – ricorda Lucchese -. Provammo ad avvicinarci a lui per fornirgli assistenza, ma già collaborava con la magistratura e così la sua adesione alla nostra associazione avvenne soltanto quando l’operazione si concluse. È per questo che la notizia del suo arresto mi lascia stupito».

Stupore accresciuto dalla consapevolezza che
il 64enne ha anche goduto delle tutele dello Stato: «Sulla genuinità di quella sua collaborazione prefettura e ministero hanno apposto il sigillo – sottolinea Lucchese -. Artale, infatti, ha ottenuto un indennizzo a fondo perduto di circa 200mila euro. Soldi che, per ciò che sappiamo, avrebbe usato per comprare un terreno dove sarebbe dovuto sorgere un impianto di calcestruzzo. Ma il progetto – prosegue – non si è mai realizzato, per motivi che non saprei ricostruire». Tuttavia, davanti ad accuse così pesanti – Artale deve rispondere di estorsione aggravata dal metodo mafioso – Lucchese invita ad attendere che «la giustizia faccia il suo corso senza guardare in faccia a nessuno». Ma una decisione è stata già presa: l’associazione, infatti, già stamattina ha espulso l’imprenditore: «Stiamo valutando anche la possibilità di costituirci parte civile in un eventuale processo», conclude Lucchese.


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