Walter Tobagi. Una presenza da far fuori

Una di quelle morti atroci e assurde per difendere la libertà di parola. La propria libertà di esprimere e mettere in luce fatti da ignorare per non rischiare la vita. Cosa farebbe un vero giornalista? Chiunque, ma soprattutto un giornalista, pagherebbe con la propria vita la rivelazione di verità taciute da tanti per paura e omertà? Ce chi l’ha fatto coraggiosamente, chi ha pagato per la propria onestà. Walter Tobagi è uno di questi.

 

Non tutti sanno chi era, cosa faceva e cosa diceva. Chi era Tobagi? Un giornalista e ricercatore universitario che ha lavorato per “L’Avanti”, “Avvenire” e per il “Corriere della sera”, che si occupava di tutto e a cui non sfuggiva niente, anche se il suo interesse primario era rivolto ai temi sociali, all’informazione, alla politica e al movimento sindacale. Tobagi, più che un comune giornalista da ufficio stampa, era un cronista lucido della realtà dei fatti, e non riusciva a rimanere indifferente di fronte alla lotta armata degli anni di piombo e ai morti. Si dedicò maggiormente alle vicende del terrorismo fascista e di sinistra seguendo tutte le intricate cronache legate alle bombe di piazza Fontana, alle “piste nere” in cui erano implicati Valpreda, Pinelli, Merlino oltre ai fascisti Freda e Ventura, e si interessò a lungo anche di altre vicende come la morte misteriosa di Giangiacomo Feltrinelli e l’assassinio del commissario Calabresi sino al delitto Moro. Si interessò in particolare alle prime iniziative militari delle Brigate Rosse, ai covi terroristici scoperti a Milano, alla guerriglia urbana che provocava rivolte e morti per le strade del capoluogo lombardo, organizzata dai gruppi estremisti di Lotta continua, Potere operaio, Avanguardia operaia.

 

Ma arriviamo a ciò che era veramente: più semplicemente era una presenza scomoda ed ingombrante per i terroristi delle Brigate Rosse nel panorama italiano degli anni di piombo. Dovevano farlo fuori: “Tobagi deve morire! Sì, è giusto, ma quando? Subito, perché sta pensando e non deve farlo. Sta parlando e non deve permetterselo. Eseguite!”.

Persone che pensano troppo come Tobagi non possono andare in giro scrivendo sui giornali fatti da tacere. Lui l’ha fatto, un semplice giornalista cattolico e socialista. Un giornalista-martire che denunciava i misfatti e dichiarava la verità. Quella verità che è meglio non svelare e tenere nascosta se non vuoi rimetterci la pelle. Una grande persona che ha messo a repentaglio la propria vita esclusivamente perché studiava, analizzava e ricercava la verità del suo tempo.

 

Ha cercato di conoscere a fondo quelli che poi sono stati i suoi assassini che lo minacciavano continuamente di morte, correndo il rischio sempre coscientemente, ogni giorno, pur di avvicinarsi a loro e comprendere le loro scelte estreme, terribili e sanguinose. E’ innegabile che egli avesse comunque paura da quando aveva scoperto che il suo nome era stato trovato in documenti di covi brigatisti come “obiettivo da colpire”, ma si era rifiutato di prendere particolari ed inutili precauzioni. Per questo suo metodo determinato di analizzare i fatti, per questo voler capire ad ogni costo, è stato ucciso, perché i terroristi colpiscono proprio chi cerca di capirli, chi con ragionamenti e analisi semina dubbi al loro interno e rivela fatti, altrimenti oscuri, alla società.

Aveva capito che il terrorismo era “il tarlo più pericoloso” per il nostro paese e sapeva che esso voleva distruggere la democrazia. Tobagi era divenuto un obiettivo, soprattutto perché era stato capace di capire e indagare più di altri. Per le BR era un avversario, e l’assassinio degli avversari per le BR era metodo essenziale della lotta politica.

 

Uno dei suoi sicari, rimesso presto in libertà, ha dichiarato: “Se ci avessero fermati quando usavamo le spranghe di ferro, non saremmo arrivati a sparare per uccidere”. Piccoli, giovani killer di appena 17 anni. Un’esecuzione feroce e velocissima con cui un commando brigatista ha fatto fuori colui che era considerato dagli stessi terroristi “il terrorista di Stato Walter Tobagi”. La sera prima di essere assassinato, Tobagi aveva presieduto un incontro per parlare del caso Isman, giornalista del “Messaggero”, catturato perché aveva pubblicato un documento sul terrorismo. Aveva parlato a lungo della libertà di stampa, della responsabilità del giornalista di fronte all’offensiva delle bande terroristiche, problemi che aveva studiato per anni e che conosceva a fondo. Aveva pronunciato frasi come: “Chissà a chi toccherà la prossima volta” e dopo pochissime ore arrivò quel momento fatale. Toccò a lui. Tobagi ha tradotto nella pratica quotidiana la sua massima deontologica della professionalità giornalistica “Poter capire e voler spiegare” e nel frattempo affermava: “La sconfitta politica del terrorismo passa attraverso scelte coraggiose”.

 

Questo non vuole essere solo un elogio per Walter Tobagi, perché lui non è stata la prima vittima e neanche l’ultima, basti pensare ai giornalisti uccisi di recente in Iraq.

Ricordare la sua morte oggi, dopo 25 anni da quel lontano ma fondamentalmente vicino 28 maggio, è necessario per difendere i diritti di coloro che fanno il proprio mestiere con tenacia e onestà, e per tutte le vittime di vecchi e nuovi terrorismi.

Valeria Arlotta

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