Violenza sulle donne, la storia di Lidia Vivoli «Sono quasi morta, ma intanto giudicano me»

«All’1.45 mi ha svegliato per dirmi che andava in bagno. Quando è tornato ha iniziato a colpirmi sulla testa con una bistecchiera in ghisa, fino a quando non si è rotto il manico. Ha iniziato a colpirmi con un paio di forbici alla schiena, poi al coccige, poi anche in faccia: ho inserito le dita negli occhielli per strappargliele, ma si sono aperte squarciandomi dal sopracciglio allo zigomo». Eppure quella notte, tra il 24 e il 25 giugno 2012, si erano addormentati abbracciati. Lei è Lidia Vivoli, ex hostess della Wind Jet. E l’uomo che quella notte tenta di ucciderla senza successo è il suo compagno da dieci mesi. «Ho tentato di nascondermi sotto al letto, ma lui mi ha afferrata per i capelli con una mano. Con l’altra, invece, ha iniziato a staccare il filo dell’abajour, ho capito subito le sue intenzioni». È tutto impresso nella sua mente, ogni dettaglio di quei momenti di terrore marchiati a fuoco per sempre e di cui Lidia ancora oggi non riesce a liberarsi.

Infila una mano tra il filo della lampada e il suo collo, per creare uno spessore. Lui demorde e lei inizia a gattonare. Lo colpisce al basso ventre e riesce, così, a dileguarsi. Ma la sua fuga dura lo spazio di qualche secondo. La prende a pugni, poi afferra di nuovo le forbici e tenta più volte di accoltellarla alla pancia e a una coscia, che si lacera. Alla vista del sangue e dell’ennesima ferita, sembra quasi scosso e si ferma. Lidia però è in trappola, l’unica finestra della stanza ha le grate e la porta è ostruita dall’uomo. Inizia quindi a parlare con lui, prova a convincerlo che non lo denuncerà, se lui la lascerà vivere. E lui si convince. Ma tra il raptus di violenza e la decisione di andare via passano tre ore. «Quando finalmente sono rimasta sola ho chiamato il 118. I medici sono stati subito chiari con me: “Dicci subito cosa è successo, perché non sappiamo se arrivi viva in ospedale”».

«Da quella notte la mia vita è cambiata per sempre – racconta Lidia -. Anche adesso, a distanza di anni, quando sento un rumore o un colpo di vento ho paura che si tratti di un uomo che vuole ammazzarmi. Questo succede ogni giorno, in ogni momento della mia vita». L’uomo viene subito individuato e portato in galera, dove trascorre inizialmente cinque mesi. Ma una volta scontati, l’unico pensiero è tornare da Lidia e implorarla di perdonarlo. E lei acconsente. «Ho pensato che l’esperienza in carcere avesse influito positivamente». Ma non torna insieme a lui. Non può, dopo le violenze subite quella notte. Seguono tredici mesi di domiciliari, mentre un altro anno lo trascorre libero con l’obbligo di firma e poi di nuovo dietro le sbarre da aprile 2015 a ottobre 2017. Ottiene in tutto quattro anni di reclusione, grazie al patteggiamento allargato, che gli consente un notevole sconto di pena. «Ho passato anni a confronto con molti psicologi, tutti mi hanno spiegato che esiste la cosiddetta dipendenza affettiva, e che in virtù di questa patologia non riuscivo a fare a meno io di lui e lui di me – spiega la donna -. Un legame pericolosissimo, letale. Soprattutto se la vittima non se ne rende conto e si lascia isolare dal partner, divenendo una preda a tutti gli effetti».

Ma all’idea di una sua scarcerazione imminente, adesso che la pena è quasi del tutto scontata, Lidia decide di riprendere la situazione in mano. Si rivolge ancora una volta ai magistrati, riprende le denunce degli anni passati, si sottopone a numerosi interrogatori. Tutto per convincere i giudici a tenerlo lontano da lei. «Sono stata sentita dai magistrati qualche giorno fa per quasi sei ore di fila – dice -. Ma le domande erano sempre le stesse dei mesi passati: “ha avuto amanti?”, “lo ha tradito?”. Mi sono sentita io quella indagata. Non mi sono solo sentita abbandonata dallo Stato, mi sono sentita giudicata e condannata. Vengono protetti i pentiti di mafia, ma non una vittima come me». Sulla scia della sua rabbia e del suo dolore, Lidia non si dà per vinta e lancia una petizione online, Se la uccide sappiamo chi è Stato, per sensibilizzare soprattutto le donne sul tema della violenza maschile. «Muoiono quasi 200 donne all’anno, ma quelle che non denunciano sono molte di più. Ma sono soprattutto le donne quelle da cui mi sono sentita maggiormente condannata, da tutte quelle che mi hanno chiesto ripetutamente se lo avessi davvero tradito, anziché chiedermi cosa avessi provato in quei momenti».

Nonostante tutto Lidia riesce a mantenere la sua positività e il suo coraggio, ed è decisa più che mai a diffondere la sua storia, per raggiungere più donne possibili. «Gli uomini non sono tutti violenti, ma alcuni sì e bisogna saperli riconoscere e fermare. Inizia tutto con una verifica sul proprio cellulare e poi con i primi divieti. Poi è tutta un’escalation – dice infine -. È importante raccontare, solo così altre donne potranno riconoscersi e capire, chiedere aiuto e uscire dall’isolamento». Intanto, solo quest’anno a Palermo si contano 15 arresti per stalking e 28 per maltrattamenti in famiglia. Un dato, però, che non può tenere conto di tutte le vittime che ancora non denunciano. 

Silvia Buffa

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