Viaggio nel Centro di espulsione di Trapani «Ci picchiano, ma vogliamo solo la libertà»

Sul muro bianco sopra una delle sei brandine, unico arredo insieme ai comodini di una stanza spoglia, qualcuno ha scritto la parola libertà. L’ha costruita con i pacchetti delle Marlboro. Sigarette, qualche bottiglia d’acqua e diverse copie del Corano sono gli unici oggetti che si vedono in giro nel Centro di identificazione ed espulsione di Trapani, in contrada Milo. Per la prima volta, una delegazione di giornalisti, guidata dal segretario nazionale della Federazione della stampa, Roberto Natale, supera gli alti cancelli gialli che separano la struttura, più simile ad una prigione che ad un centro di identificazione, dal resto del mondo.

Nel dicembre scorso il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri ha messo fine alla linea dura imposta dal suo predecessore Roberto Maroni, che aveva reso i Cie fortezze inaccessibili. I migranti nel centro attualmente sono 76. Tuttavia la capienza massima del Cie di contrada Milo, gestito da un’Ati che raggruppa le cooperative Insieme e Badia grande di Castelvetrano, arriva fino a 220 persone. Il numero si è ridotto da qualche giorno, perché sono evasi in 118, scavalcando i muri di recinzione. «Stavano qui da otto mesi e non ce la facevano più», racconta un marocchino rinchiuso nel Cie da cinque mesi. Lui non è scappato perché vuole avere un futuro in Italia. «Sono evasi in due tranche», rivela il direttore del Cie Gianni Barbera. La seconda volta appena tre giorni fa. Uno scenario difficile da immaginare dato l’alto numero di agenti delle forze dell’ordine che ci ha accolto e segue passo passo le nostre intrusioni negli stanzoni del Cie. «Adesso vi hanno fatto entrare perché siamo pochi», dice un immigrato.

Molti hanno problemi di salute e di dipendenza da droghe, mentre si registrano numerosi atti di autolesionismo. «Hai voglia, quelli sono all’ordine del giorno – ci dice Giovanna Ottoreggio, psichiatra di servizio all’infermeria – in genere si provocano lesioni o ingeriscono corpi estranei». Secondo il deputato del Pd Alessandra Siragusa, che ha visitato il Cie a fine aprile, sono stati 50 i casi di autolesionismo nell’ultimo periodo a cui si aggiungono alcuni tentativi di suicidio. Davanti alle telecamere gli immigrati denunciano le violenze da parte della polizia. «Hanno raccontato – spiega Rabih Bouallegue, blogger tunisino che ha fatto da mediatore durante la visita – che un’auto della guardia di finanza ha schiacciato la spalla di un migrante che è stato rimpatriato. Un altro mostra un gonfiore alla tempia sinistra causato da una manganellata».

La maggior parte dei migranti è di origine tunisina, giunti a Trapani dopo essere passati per le carceri di mezza Italia: Milano, Roma, Modena, Torino, Chieti. Hanno scontato piccole pene per spaccio e soprattutto per il reato di clandestinità. Ma senza un lavoro e quindi senza documenti, dopo il carcere si spalancano le porte dei Cie. «Non c’è una fine pena – spiega Mohammed (nome di fantasia perché bisogna garantire l’anonimato), 54 anni, da cinque mesi rinchiuso nel centro di Trapani – E’ questo che ti distrugge, io non mangio da tre giorni per il nervosismo». Mohammed arriva in Italia nel 1979, e comincia a lavorare come allevatore di cavalli. «Sono cresciuto in questo Paese, mi sono sposato in questo Paese, mia figlia è nata a Napoli. Ho versato 22 anni di contributi, poi ho perso il lavoro e sono finito in carcere per minacce a un pubblico ufficiale». Dal carcere di Chieti, viene trasferito nel Cie di Roma, quindi una tappa a Palermo per essere riconosciuto dal console tunisino. Ma il tentativo è vano. Il peregrinare ricomincia dal Cie di Bari, quindi Trapani. «Non vedo la mia famiglia da due anni, nel resto d’Europa dopo dieci anni ottieni la cittadinanza, in Italia no».

Le stanze sono spoglie. Materassi poggiati direttamente sul pavimento, un tavolo con poche sedie, carte da gioco e la tv accesa. Nei bagni non ci è permesso entrare, anche se le porte sono bloccate e tenute aperte da un paio di ciabatte. Sbirciando saltano all’occhio le buste nere, come quelle dell’immondizia, sorrette da un filo e usate al posto delle tende da doccia. In ogni stanzone ci sono almeno sei brandine, alcune senza materasso. «Le sedie e i tavoli li hanno portati stamattina perché dovevate venire voi», denunciano quasi in coro gli immigrati. «Prima mangiavamo a terra. Non siamo animali». Anche i materassi sono stati cambiati per l’occasione, dicono. Sicuramente le pulizie sono state fatte da poco: l’odore del disinfettante brucia quasi le narici.

Il cibo arriva nei contenitori chiusi e plastificati tipici degli ospedali. «Mangio da cinque mesi pasta e pollo, sempre uguale», ci dice Abdel, altro nome inventato per necessità. «Non ho commesso alcun reato, ci chiamano ospiti ma qui è una galera». Abdel vive in Italia da quindici anni. È un tecnico specializzato in serigrafia, ma nel nostro Paese lavorava al mercato. Fuori dal Cie ha lasciato una moglie e due figli che non sente da un mese. Difficile anche parlare con l’avvocato, che sostiene di aver visto solo una volta in questi cinque mesi. Una situazione comune a tanti altri migranti. Rinchiusi in un buco nero, invisibili al resto del Paese. Puniti non per quello che hanno commesso, ma per quello che sono.

Agata Pasqualino

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