Francesca Castellese è stata ascoltata nel processo a carico dei poliziotti Bo, Ribaudo e Mattei. Fu la prima nel ’93 a parlare, a colloquio col marito, di «qualcuno infiltrato nella strage» del 19 luglio ’92. Colloquio di cui oggi non sembra ricordare più nulla
Via d’Amelio, sentita mamma del piccolo Di Matteo «Potevate farne a meno, non fatemi tornare più qui»
«Castellese Francesca, nata ad Altofonte», inizia pronunciando la formula di rito l’esame della mamma del piccolo Giuseppe Di Matteo. Ma solo pronunciare le proprie generalità le rompe immediatamente la voce, che si spezza e la fa tentennare. «Io mi sento male – dice, dando libero sfogo a un pianto straziante -. Potevate farne a meno…». La donna, non a caso, aveva fatto pervenire per oggi un certificato medico, per giustificare la sua eventuale assenza. Tuttavia, ha deciso comunque di presentarsi in aula, per essere ascoltata nell’ambito del processo nisseno a carico dei funzionari di polizia Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di calunnia aggravata dall’aver agevolato Cosa nostra. «Personalmente dal punto di vista umano io non me la sento di condurre l’esame della signora oggi. Chiedo che venga posticipato», esordisce a questo punto il pubblico ministero Stefano Luciani. Una richiesta a cui si associano subito anche gli avvocati difensori dei tre imputati. Il presidente Francesco D’Arrigo, però, non è dello stesso avviso: «Il dolore della signora non è circoscritto alla data odierna, suppongo. Sembra che lei stessa stia chiedendo di proseguire». «Sì, mi faccia le domande, ma non fatemi tornare più», conferma infatti la donna, che era già stata ascoltata anche durante il Borsellino quater, sempre a Caltanissetta.
L’esame quindi sembra prendere il via, «ma non fatemi ricordare…», dice con voce supplichevole. Chiude gli occhi e scuote la testa quasi per allontanare il pensiero intollerabile di quel figlio tenuto prigioniero per 779 giorni, prima di essere ucciso e sciolto nell’acido. In quello che è un giorno simbolico in cui si ricordano, ironia della sorte, tutte le vittime uccise dalla mafia nella giornata istituita da Libera. A parte quel dolore che non accenna ad affievolire neppure a distanza di 23 anni, i ricordi della signora sembrano pochi e sbiaditi. «Non ricordo il giorno esatto in cui hanno arrestato mio marito, ma già collaborava sicuramente quando hanno rapito Giuseppe, proprio per questo lo hanno rapito», dice. E, a proposito del rapimento del figlio, conferma, come già altre volte in passato, di aver ricevuto durante la prigionia di Giuseppe «un paio messaggi, me li mettevano sotto la porta di casa, a terra. C’era scritto di fare tacere mio marito, di non farlo parlare. “Tappaci la bocca”, recitava un biglietto. Due righe, non c’erano grandi parole», ma non ricorda con precisione di averne mai parlato a colloquio col marito carcerato.
Quel marito del quale, malgrado i quindici anni di matrimonio trascorsi insieme dal’78 al ‘93, non sospettava l’appartenenza mafiosa. «Io non capivo nulla, avevo il prosciutto agli occhi», spiega oggi la signora Castellese. «Non ci potevo credere…Non so nemmeno di che fatti possa aver parlato coi magistrati…anche se leggevo i giornali all’epoca, ma adesso non ricordo. Non so se parlò della strage di Capaci». Il 14 dicembre del ’93, due settimane dopo il rapimento, ci fu però un colloquio tra lei e il marito. Di cui la donna non ricorda nulla, ma che fu all’epoca intercettato. «Non so le date, ma ogni tanto ci incontravamo. Con lui non ricordo di aver mai discusso della strage di via d’Amelio», risponde oggi. Eppure di quella strage pare ne abbiano parlato insieme. «U picciriddu avia a essere vivu prima. No ca iddu …tappaci la bocca…che significa, tu lo sai?», chiedeva la donna al marito che sedeva di fronte a lei, alternando domande e pianto disperato. Ma lei di quella conversazione non ricorda più niente oggi.
«Senti a mia – diceva al marito sempre in quel colloquio, riletto oggi in aula – qualcuno è infiltrato per conto della mafia. Tu questo stai facendo, perché tu devi pensare alla strage di Borsellino, c’è stato qualcuno infiltrato che ha preso…Io chistu ti dico, forse non hai capito…Io avia a fari finta…capire se c’è qualcuno della polizia pure infiltrato nella mafia, mi devi aiutare su tutti i punti di vista perché io mi scantu, mi scantu». Ma oggi sembra esserci un buco enorme nella memoria della donna. Lo stesso già manifestato durante il suo esame del ’97, e quelli del 2014 e del 2015. Tutte le volte le sue risposte sono state le stesse. Eppure sono proprio le sue quelle parole, registrate su nastro. A tu per tu col marito è proprio la signora Castellese che di punto in bianco tira fuori il tema, inedito all’epoca, di qualcuno infiltrato nel caso della strage in via d’Amelio, mentre il marito fino ad allora aveva solo riferito ai magistrati della strage di Capaci. Sembra ci siano quindi aspetti ancora ampiamente poco chiari, che spiegano le continue citazioni della donna. «Io non ho avuto mai a che fare con nessuno, la gente mi schifava – racconta oggi -. Non so cosa dire, non ricordo niente, forse ho letto qualcosa dai giornali. Io uscivo e andavo a lavorare, mio marito non mi ha mai confidato niente, né prima né dopo. È un bel po’ di anni che non ci incontriamo». E Giovanni Brusca, invece? «Lo conosco, certo che lo conosco…è lui che ha fatto uccidere mio figlio, lo ha fatto distruggere».