Usa, sì della Corte suprema ai matrimoni gay I festeggiamenti visti dal quartiere di Milk

Se è vero che nell’era di internet ogni giorno ha un centro di importanza diverso e allora certamente vero che ieri 26 giugno 2013 il centro del mondo è Castro, il quartiere omosessuale di San Francisco reso famoso dal film Milk di Gus Vant Sant sulla vita e la morte di Harvey Milk (il primo uomo dichiaratamente omosessuale in America ad essere eletto ad una carica politica ed assassinato nel 1978 da un fanatico, omofobo e squilibrato politico suo collega). Sono passate ore dall’annuncio della Corte Suprema a Washington del riconoscimento legale dei matrimoni omosessuali e a Castro non si smette di festeggiare una vittoria storica per il movimento per i diritti degli omosessuali e, più in generale, per chi qui crede nell’uguaglianza di tutti gli individui di fronte allo Stato e alla legge.

La giornata è più calda del solito per questo periodo dell’anno a San Francisco e la leggera brezza che non smette di agitare l’immensa bandiera arcobaleno tra Castro Street e Market Street (punto considerato il cancello d’ingresso del quartiere) non risulta sgradevole alle migliaia di persone venute oggi qui ad aspettare prima e a celebrare poi la decisione della Corte Suprema. In mattinata l’annuncio dei giudici (split decision, cinque a quattro per i sì) viene accolto tra le strade di Castro come da noi sarebbe accolto un gol della nazionale di calcio in una finale dei mondiali. La gente, uomini e donne, giovani e meno, smette di esultare solo per aggregarsi in un pacifico corteo e marciare da Castro giù per Market Street sino al Civic Center (sede del Comune di San Francisco) per festeggiare e rendere onore ad Harvey Milk, che alla fine degli anni ’70 in quella sede lavorò da omosessuale dichiarato dopo essere stato eletto alla carica di City Supervisor (una sorta di consigliere di quartiere).

Nel pomeriggio tra i marciapiedi di Castro tutti si preparano per lo show dei telegiornali della sera (che qui sono tra le 17 e le 18), per quella immancabile frenesia tutta americana che porta un evento a diventare realmente vero quando viene celebrato e visto attraverso la televisione. Le troupe dei principali network (dall’Abc alla Cnn) sono appostati sul marciapiede di fronte all’uscita di Bart (la metropolitana di San Francisco e di tutta la Bay Area) ai piedi della bandiera arcobaleno in cerca di storie, di dichiarazioni, di personaggi. Castro è un quartiere colorito e festoso (d’altronde gay letteralmente significa gaio, allegro) ma oggi certamente, se è possibile, lo è ancora di più.

Nella giornata parlo con molte persone, dal cinquantenne in sedia a rotelle che porta con orgoglio sulla testa, da anni calva, un velo da sposa, sino al libero professionista, passando dall’impiegato, il carpentiere o l’idraulico. Le parole, le opinioni e le idee sono divise mediamente tra chi ne fa una vittoria di principio a chi ne fa una vittoria di merito. Tra chi ne fa una traguardo per i diritti dell’individuo a chi esulta perché finalmente, attraverso il matrimonio, può allargare la propria assicurazione medica al partner o alla compagna di una vita (credetemi, in America, quest’ultima non è cosa da poco).

All’imbrunire la polizia chiude le strada di Castro. La gente, a migliaia, ormai occupa la sede stradale. Il party generalizzato durerà tutta la notte, forse tutta la settimana. Da oggi la California è ufficialmente il tredicesimo stato a legalizzare il matrimonio tra omosessuali (nel 2004 era già stato regolarizzato a San Francisco dall’ex Sindaco Gavin Newsom ma la Proposition 8 nel 2008 ne aveva bloccato l’attuazione) ma la decisione della Corte Suprema ha validità in tutti e cinquanta gli Stati. Impossibile prevederne le conseguenze perché impossibile è prevedere come la nuova legge verrà applicata nei singoli differenti Stati. Malgrado la vittoria, in pratica, la strada è ancora lunga. Certo è che a Castro, come in tutta San Francisco, la gente ha accolto la decisione della Corte Suprema in maniera estremamente positiva.

A fine giornata parlo con un altro manifestante il quale mi dice di non essere gay e di non far parte della comunità omosessuale ma che vuole sostenere la causa di chi combatte per i propri diritti. Questa è la differenza tra San Francisco e gli Stati Uniti, tra l’America e il resto del mondo. In questa strana città gli omosessuali non sono un corpo estraneo alla società ma in essa sono perfettamente integrati (Castro non è un quartiere esotico ma una delle attrazioni della città di cui la gente è orgogliosa) e in America non si delegittimano le decisioni di un organo legislativo o giudiziario ma ad esse ci si adegua considerandole un passo avanti nel progresso civile e morale di tutta una società.

La notte arriva, Castro Theatre accende le sue luci al neon per promuovere i film della serata. Sotto le sue insegne la movida continua come una onda variopinta e catartica. Sull’autobus per tornare a casa parlo con un sessantenne con cappellino da baseball giallo e bretelle viola su maglietta arcobaleno. Sembra saltato sulla macchina del tempo a Barkeley nel ’68 e atterrato oggi a Castro. Mi dice «Festeggiamo questa notte e domani ricominciamo a combattere». Gli domando se è omosessuale, se ha qualche parente omosessuale o qualche amico omosessuale e lui mi risponde «no», «no», e «no».

 

[Foto di Arashdeep]


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