L’uomo d’onore riservato nella mafia: «Usarlo in modo occulto per non bruciarlo»

Forse la punciuta come rito di affiliazione alla mafia non si usa più. E anche gli uomini d’onore non sono più quelli di una volta. Oggi sono «riservati». Eppure, certi assetti tradizionali delle organizzazioni criminali restano immutati. Secondo il quadro che emerge dalla relazione della Direzione investigativa antimafia che analizza il secondo semestre del 2022, le famiglie mafiose etnee riconducibili a Cosa nostra (e anche quelle che vi orbitano attorno) sono sempre le stesse e organizzate alla vecchia maniera. Con qualche aggiustamento pratico dovuto ai tempi che cambiano. A rappresentare «l’espressione più pericolosa della forza e dell’aggregazione» continua a essere la famiglia Santapaola-Ercolano, come era stato messo nero su bianco nelle carte dell’ordinanza relativa all’operazione antimafia Agorà del giugno del 2022. Aggregazione che, però, lascia spazio a una certa autonomia organizzativa e decisionale alle diverse squadre che si spartiscono i quartieri. Da Librino a San Comiso, dal Villaggio Sant’Agata a Picanello fino a San Giovanni Galermo. Un modo per garantire la gestione di una pluralità di interessi criminali e un capillare controllo del territorio.

Modelli nuovi che hanno radici nel passato. «Intorno alla metà degli anni Ottanta – si legge nelle sentenza della corte d’Assise di Catania dell’ottobre del 1996 sull’operazione Orsa maggiore – la famiglia catanese, pur mantenendo immutate le tradizionali e ufficiali cariche di Cosa nostra, si dà una nuova struttura più agile ed efficiente: nascono i sottogruppi, ciascuno dei quali diretto da un uomo d’onore». Un modello che, già all’epoca, rispondeva a esigenze di carattere organizzativo e operativo più che a una vera e propria ripartizione formale. Uno schema che ha permesso alla famiglia mafiosa, con tutte le sue articolazioni, di «radicarsi sempre più sul territorio con un controllo penetrante e diffuso», come analizzano dalla Dia nella relazione del ministero dell’Interno al Parlamento. Un nuovo tassello dell’organigramma mafioso è emerso più di recente, dalle indagini dell’operazione Sangue blu del settembre del 2022. L’inchiesta che ha permesso di tracciare il profilo del nuovo reggente del clan Santapaola Ercolano.

Francesco Napoli, quasi cinquant’anni di cui tredici passati dietro le sbarre. Forte di una parentela di quelle che contano in certi ambienti – il suo nonno paterno è Salvatore Ferrera, detto Cavadduzzo, parente dello storico capomafia Nitto Santapaola – è a lui che tocca l’investitura di «uomo d’onore riservato». La stessa definizione che, più di recente, è stata usata per definire anche Andrea Bonafede, il geometra di Mazara del Vallo (nel Trapanese) che per anni ha prestato la propria identità all’ormai ex superlatitante Matteo Messina Denaro. «L’uomo d’onore riservato – si legge in un passaggio dell’ordinanza Sangue bluviene fatto dai familiari stretti ed è noto solo a chi lo ha ritualmente affiliato che poi decide quando e se presentarlo […] Le ragioni per le quali si fa un uomo d’onore riservato sono le più varie, tra le altre v’è anche la possibilità di utilizzarli in modo occulto evitando di bruciarlo».

E a non farsi bruciare, Napoli ci avrebbe provato sfoderando tutta la propria riservatezza. «Mbare dobbiamo essere sempre più ermetici, non ci possiamo rilassare mai», dice Napoli a un sodale otto mesi dopo essere stato scarcerato senza sospettare di essere intercettato. Va in giro con una bici elettrica e quando deve dire cose importanti le persone preferisce incontrarle dal vivo – anche organizzando appuntamenti concordati dallo stesso cardiologo o nella stessa officina meccanica – e parlare a bassa voce all’orecchio. Cambia decine di sim del cellulare – spesso intestandole a cittadini di origine straniera – e, finché può, evita di portare lo smartphone durante i summit. Parola d’ordine, insomma, riservatezza sia all’interno che all’esterno. Con l’obiettivo di continuare a sviluppare una vocazione imprenditoriale per infiltrare il l’economia sana. Pratiche che spesso si trasformano nel reato di intestazione fittizia di società tramite le quali le organizzazioni criminali puntano a reinvestire i proventi illeciti del traffico di droga e delle estorsioni.


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