Un manifesto per l’università pubblica

“Un testo contro l’arroganza della politica moderna. Una via verso un’università pubblica di qualità che coltivi il nuovo mestiere della conoscenza”. È questo il “Manifesto per l’università pubblica”, una sorta di guida per gli studenti a una nuova “coscienza della conoscenza”, redatta da vari autori e presentata lo scorso 3 aprile nel salone della CGIL.

Il testo, uscito nel dicembre dello scorso anno, vuole essere considerato una voce contro la crisi dell’università pubblica, la cui difesa è oggi “una lotta per la sopravvivenza”, come afferma uno degli autori presenti all’incontro, Alberto Burgio, docente dell’Università di Bologna e appartenente alla direzione nazionale del PRC.
I punti principali di discussione sono la riduzione dei fondi, le misure che rendono pressoché impossibile l’inserimento dei giovani studiosi nel sistema di ricerca, la privatizzazione delle università.
Questi fattori sociali, per Luca Bongiovanni, rappresentante degli studenti del consiglio di Facoltà di Lettere di Catania, “sono le armi di una morte dell’università a cui stiamo andando incontro molto lentamente. Contro queste misure il mondo universitario ha deciso di ribellarsi”.

Presenti al dibattito anche due docenti dell’Università di Catania, Rosario Mangiameli, docente di storia contemporanea, e Renato Pucci, ordinario di Fisica della Materia ed ex preside della facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali. I docenti concordano entrambi sul fatto che “dopo anni di torpore e silenzio gli studenti hanno ritrovato la voglia e la forza di manifestare.”

Con il coordinamento di Maria Merlini, componente del comitato regionale PRC, l’incontro ha cercato di collegare le statistiche e i fatti documentati nel testo con realtà universitaria catanese, alle porte delle nuove elezioni del Rettore. Il libro cerca, inoltre, di fornire gli strumenti per comprendere il “disastro” che innescherà la legge 133. Il professor Burgio spiega le sue preoccupazioni con alcune statistiche: “La spesa pubblica italiana in ricerca e sviluppo è pari all’1,1% del Pil, contro una media europea del 2%, la media Ocse del 2,5% e l’obiettivo del 3% fissato per il 2010 dalla Carta di Lisbona. Tra il 1990 e il 2005 in Italia gli investimenti complessivi (pubblici e privati) in ricerca e sviluppo sono cresciuti di appena il 4% al netto dell’inflazione, contro il 21% della Francia, il 38% della Germania e il 117% della Spagna”.

Nel dibattito c’è stato spazio anche per il caso della facoltà di Farmacia. Francesco Marino, del collettivo “La Tarantola”, afferma: “All’inizio degli anni ’90 la facoltà di Farmacia di Catania era tra le prime dieci per le importanti attività di ricerca. Oggi tutto ciò è andato perso e la situazione di abbandono totale ci rilega all’ultima posizione della classifica nazionale delle facoltà”.
Antonio Las Casas (precari della ricerca) mette invece l’accento sul problema del reclutamento: “Si preferisce premiare chi fa mille cose e male, mentre si disconoscono e si rendono invisibili quegli studenti che da 10-15 anni aspettano la possibilità del dottorato di ricerca. C’è tanto lavoro qualificato ma tutto precario e invisibile agli occhi del rettorato che non dà alcune speranze in questo senso”.


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