Da più parti ormai si ricorre al termine etica per indicare comportamenti conformi a principi di correttezza o di giustizia, o per sollecitare correzioni di rotta quando da quei comportamenti ci si allontana, e si auspica una più forte dose di etica nei comportamenti pubblici o di coloro che hanno responsabilità pubbliche. Altri invocano più etica negli affari. In verità è difficile capire cosa si intenda con questi richiami. Se si intende che occorre rispettare le leggi il riferimento all’etica è improprio poiché la dimensione legale è diversa dalla dimensione etica e ciò che è legale non è necessariamente etico. Se il richiamo è a norme non scritte occorrerebbe fornire la fonte di quelle norme ed illustrarne il grado di autorevolezza. Se si fa riferimento ad una autorità morale sarebbe utile almeno identificarla e presentarne le credenziali. Ciascuno poi potrà decidere se l’autorità di riferimento è così autorevole da meritare di essere seguita. In verità ciò che sta dietro questi richiami è un generico invito alla solidarietà ed alla misura, in modo da evitare alcuni eccessi che comportamenti troppo auto-interessati possono generare. Ma anche se questi comportamenti sono sicuramente da contenere, non sarà certo con un generico richiamo all’etica che ciò si potrà ottenere.
Poiché la questione è tornata alla ribalta recentemente nel nostro Ateneo con numerosi richiami del genere è bene chiarire alcuni aspetti importanti. L’etica è la scienza del bene e del male, e di questi studia i fondamenti filosofici. Nel linguaggio ordinario l’etica è una qualificazione di comportamenti ritenuti buoni. Su questi comportamenti e sulla loro natura ‘etica’ vi è normalmente ampia condivisione. Ciò tuttavia non significa che quei comportamenti vengano seguiti nella pratica quotidiana né particolarmente difesi al di fuori delle occasioni pubbliche. È il fenomeno della doppia morale noto a tutti. Il problema allora è proprio questo: come ridurre il divario che esiste tra un insieme di comportamenti ritenuti virtuosi e l’insieme reale dei comportamenti che all’interno di una istituzione come l’Università vengono assunti quotidianamente. In questo contesto un generico richiamo a comportamenti ‘etici’ è assolutamente privo di effetti pratici. Il richiamo è inutile perché i destinatari di quel richiamo conoscono perfettamente quelle regole di comportamento e probabilmente le hanno anche difese in pubblico, ma ciò non gli ha impedito di violarle in pratica.
Se si vuole veramente ridurre all’Università la distanza tra le due morali, avvicinando i comportamenti quotidiani alle enunciazioni di principio, sono disponibili due strade. La prima è quella di un maggior controllo sul rispetto delle regole: in questa attività l’ufficio del Garante d’Ateneo svolge un ruolo fondamentale. Esso infatti esercita una funzione di vigilanza intervenendo su richiesta laddove le regole dell’Ateneo non siano state correttamente applicate. Esso tuttavia non ha nulla a che fare con l’etica. Che offre invece un’altra strada.
Come già ricordato l’etica ha a che fare con il bene e con il male e con ciò che si ritiene bene o male. Ma ciò che riteniamo buono o cattivo non è mai il risultato di un calcolo interessato, come avviene quando aderiamo ad un contratto o partecipiamo nella qualità di elettori alla formazione di una legge. Piuttosto, ciò che riteniamo buono o cattivo è parte della nostra storia e della nostra identità, sia come persone singole sia come parti di un soggetto collettivo come l’Università, anche se questa storia e questa identità sono spesso condizionate dai contratti e dalle leggi del passato. I nostri valori ed i nostri fini ci aiutano a definire sia la nostra identità di persone sia quella di soggetti collettivi. Ciascuno di noi costruisce il suo ‘codice etico’ e su di esso informa il suo comportamento ed entra in relazione con gli altri. Ma deve anche sopportare il rischio, ed affrontare le relative conseguenze, di avere un codice etico diverso da quello degli altri. Pure l’Università deve definire il suo ‘codice etico’, ossia l’insieme di ciò che ritiene sia bene fare o non fare. Invero, l’Università lo ha già fatto dando corpo al suo Statuto ed ai suoi Regolamenti; ma lì la dimensione etica si perde ed emerge solo quella dell’utilità. Se si vuole al contrario dare un ruolo all’etica e sfruttarne la forza occorre scrivere quel codice ed occorre renderlo pubblico. In questo modo l’Università definirà di fronte ai suoi interlocutori (oggi si chiamano portatori di interessi o stakeholder) la sua identità di valori e di principi e potrà anche costruirsi una reputazione di autorevolezza e di coerenza nel rispetto e nella difesa di quei valori. Se tale reputazione sarà solida essa non potrà che trarne vantaggio attraendo a sé nuove risorse umane e finanziarie.
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