Tutti giornalisti?

Tutti giornalisti? La partecipazione del pubblico alla fabbrica dell’informazione è ormai costellata da alcuni fatti d’arme: lo tsunami nel Sud-Est asiatico del dicembre 2004, gli attentati a Londra del 7 luglio 2005, il colpo di stato in Thailandia del settembre 2006… Grazie ad alcuni passanti, presenti sui luoghi, immagini di questi avvenimenti sono state prese “a caldo” e diffuse sui siti dei giornali o sulle catene televisive. «Si tratta di persone comuni, testimoni, che condividono eventi straordinari» commenta Leonard Brody, fondatore di NowPublic – www.nowpublic.com– un sito partecipativo basato a Vancouver, valutato recentemente 10,6 milioni di dollari.

Lo sviluppo delle nuove tecnologie ha dato ai cittadini la possibilità di salire sul palcoscenico e di partecipare all’informazione. Chiunque può esprimersi con un blog, prendere fotografie e video col proprio portatile-cinepresa tascabile e inviarle al mondo intero. La massa è diventata un’immensa riserva di “contenuti”, pur continuando contemporaneamente a detenere un formidabile potere di consumo. Principio incarnato da NowPublic che, creato nel 2005, federa oggi 127.000 “reporters” in 140 Paesi e in più di 400 città. «Abbiamo capito che esisteva il bisogno di un nuovo tipo di agenzia di raccolta, organizzazione e distribuzione di tale informazione», spiega Leonard Brody, che non esita a rilevare l’ambizione di fare di NowPublic la principale agenzia di stampa mondiale. Reuters dovrebbe rabbrividire.

Il giornalismo partecipativo, in quanto testimonianza, non è nato ieri. Resta esemplare il film dell’assassinio di Kennedy, girato da un cineoperatore amatoriale, l’americano Abraham Zapruder. Ma un armamentario facile da utilizzare ha permesso l’espansione di simili apporti e la realizzazione di piattaforme girevoli partecipative. C’è ormai una storia del citizen-journalism che individua Ohmynews come padre fondatore (http://english.ohmynews.com). Lanciato nel febbraio 2000 in Corea del Sud, Ohmynews è un portale web al quale possono sottomettere i propri articoli i cittadini del mondo intero. Un successo basato sull’emulazione, giacché è alimentato attualmente da 50.000 reporters: dallo studente, alla casalinga, all’esperto di questioni ambientali.

Il fenomeno sudcoreano, che può registrare fino a un milione di visite al giorno, ha figliato. Prima impresa dello stesso genere in Europa, Agoravox (www.agoravox.fr) è stato lanciata nel maggio del 2005, sotto la protezione della società parigina Cyblon. Ha fatto registrare 1,2 milioni di visitatori nel giro di due anni, grazie anche alle presidenziali francesi, propizie ai grafomani. Nel frattempo, nel maggio 2006, in Quebec è nato un cugino battezzato CentPapiers (vedi www.centpapiers.com).

Ma la generazione spontanea di “giornali dei cittadini” online ha conosciuto alcune difficoltà. Negli Stati Uniti si guardava con interesse ad AssignementZero, posto sotto le ali protettrici di “Wired”, il magazine della nuova tecnologia. Era stato avviato da Jay Rosen, ex reporter e professore all’Università di New York, capofila negli Usa del concetto di citizen-journalism fin dagli anni Ottanta. Nel giro di sei mesi l’esperienza si è arrestata. Tracciando un bilancio d’insieme Jay Rosen spiega così le ragioni dell’insuccesso. «Ciò che abbiamo imparato – scrive Rosen – è che occorre essere più chiari su quello che chiediamo ai contributori. Per costruire un insieme di un qualche valore economico, le community devono essere coltivate, rispettate e abilmente controllate». Parole su cui meditare!

Questa breve storia del giornalismo partecipativo in azione lascia sperare sviluppi più ampi? E cosa ne traiamo?

Non tutti possono improvvisarsi giornalisti. I contenuti prodotti su Agoravox costituiscono in prevalenza commenti o parafrasi. «Inizialmente abbiamo cercato di risolvere il problema con le “wiki-inchieste” e ultimamente lanciando nuove inchieste citoyennes coordinate da un esperto o da un giornalista professionista» afferma, pieno di speranze, Carlo Revelli, il fondatore di Agoravox, il quale incidentalmente ribatte che anche sui media tradizionali si trova un’enormità di opinioni e di sintesi delle news d’agenzia.

Né appare facile “inquadrare” l’insieme dei contenuti provenienti dal basso. La parola d’ordine di Rue89 (www.rue89.com), fondata da alcuni vecchi redattori di Libération e lanciato il 6 maggio, giornata del secondo turno delle elezioni presidenziali francesi – è “partecipazione organizzata”. Non si dispera di far aumentare il contributo del “terzo cerchio” (1. I giornalisti; 2. Gli esperti; 3. I cittadini) che attualmente rappresenta appena un terzo dei contributi messi on line. Ma l’equipe del sito, che ha cumulato 400.000 visite in giugno (un buon risultato) è molto determinata, lancerà una versione 2 in settembre e punta sull’informazione locale, partendo da Lione come città campione.

Lezione principale che si può trarre da questa frenesia del giornalismo partecipativo: il giornalismo deve ascoltare di più il pubblico. Evoluzione inevitabile se vuole sopravvivere nell’era di internet. Negli ultimi tempi i media sono diventati più attenti alle testimonianze dei cittadini, come hanno fatto la CNN e il New York Times in occasione dell’uragano Katrina negli USA. La manna partecipativa rappresenta anche la promessa di pagine disponibili senza sborsare un soldo.

I media tradizionali cominciano ad aprirsi a contributi “profani” degli spazi “moderati”. Così il quotidiano spagnolo El Paìs, a partire da aprile: «Se sei stato testimone di una qualsiasi notizia, mandala e la pubblicheremo. (…) Da oggi i lettori di El Paìs si trasformano in giornalisti». Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di foto alle quali sono aggiunti dei commenti: un’immagine che denuncia gli ingorghi sulla circonvallazione di Madrid il 15 agosto, un’altra che fustiga le migliaia di bottiglie rotte dopo i festeggiamenti a Vitoria, nel Paese Basco. Altri progetti partecipativi si stanno mettendo a punto su Le Monde, su Libération, e senza dubbio anche altrove. In cerca della formula giusta. «Il giornalismo era lineare. Ormai è diventato una rete, constata Jeff Howe, giornalista e blogger. Era in mano di alcuni. Oggi è in mano di molta più gente».

[Questo articolo è comparso col titolo Le journalisme citoyen à l’assaut de l’info su Libération del 20 agosto 2007, pp.2 e 3. La traduzione è stata curata dalla redazione di Step1]


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