"Promemoria Quindici anni di storia d'Italia" è il nome dello spettacolo che il giornalista ha portato in scena domenica scorsa al teatro Metropolitan di Catania. Oltre tre ore di cronache di mafia e tangenti, raccontate con amara ironia
Travaglio, tra teatro ed enciclopedia
Erano molte le poltrone vuote, il 28 febbraio, al Metropolitan. Forse perché l’argomento era lo stesso di un anno fa, messo in scena di questi tempi, nello stesso posto. Forse perché è umano domandarsi: «Che senso ha pagare per qualcosa che posso vedere gratis in televisione o, meglio ancora, su internet?». Effettivamente, però, Marco Travaglio e il suo “Promemoria” non hanno molto a che vedere con i pochi minuti della copertina di Annozero, il programma di approfondimento condotto su Rai Due da Michele Santoro, né con “Passaparola”, la video-rubrica online appendice del blog di Beppe Grillo.
La differenza la immaginavano i presenti, compreso Franco Battiato che, dopo essere stato accolto in teatro con un applauso spontaneo del pubblico, ha preso posto in prima fila e da lì non si è mosso, se non alla fine di tutto, dopo più di tre ore di fatti italiani sciorinati con rapidità ed ironia, inframmezzati dalle musiche dal vivo di Valentino Corvino e Fabrizio Puglisi, che hanno mixato violino e pianoforte con i discorsi di Martin Luther King e Gandhi, con le parole dei giudici Falcone e Borsellino, e alla fine, in una parabola discendente, con le dichiarazioni in inglese maccheronico del premier Silvio Berlusconi.
«La prima Repubblica muore affogata dalle tangenti, la seconda esce dal sangue delle stragi, ma nessuno ricorda più nulla. La storia è maestra, ma nessuno impara mai niente». È l’incipit di una carrellata che parte dal 1992, dal 17 febbraio di quell’anno e da Mario Chiesa, socialista, che viene arrestato dai carabinieri nell’atto di prendere una tangente del valore di circa dieci milioni di lire. Quando gli tolgono la mazzetta dalle mani, Chiesa replica che quei soldi sono suoi. Ma sono soldi dei cittadini. Chiesa non si arrende, prende dal cassetto un’altra busta e corre in bagno, cercando di farla sparire dentro al water. Ma cinquanta milioni sono troppi per un gabinetto soltanto e «così, in quest’esplosione di banconote umidicce e maleodoranti, se ne va, anche simbolicamente, la fogna della prima Repubblica».
È Mani Pulite, l’inchiesta condotta da Di Pietro e altri magistrati come lui, che avrebbe portato nel giro di un anno e mezzo ad indagare cinquemila persone e ad arrestarne novecento, «delle quali il più sfigato faceva il sindaco di Milano, il più importante era il Presidente del Consiglio, Bettino Craxi, che finché era vivo era latitante, dopo morto è diventato esule. Eppure non è che la sua situazione sia cambiata: se era latitante quand’era vivo, lo era anche da morto, solo che si muoveva di meno».
La tassa impropria che Tangentopoli imponeva ai cittadini oscillava tra «i dieci e i quindicimila miliardi di salasso annuo, cioè tra i sette e gli otto miliardi di euro di oggi. Solo che oggi la corruzione ce ne costa sessanta. La differenza? Prima le tangenti erano sbattute in televisione e tutti le vedevano, adesso ce le tengono ben nascoste e che nessuno ne parli, per carità».
Non sono soltanto gli anni di Tangentopoli, sono anche gli anni in cui si affaccia sul panorama politico italiano Marcello Dell’Utri, palermitano, amico di Silvio Berlusconi dai tempi dell’università («strano ma vero, studiavano legge»), e amico anche di mafiosi come Gaetano Cinà e Vittorio Mangano.
Nel 1974 Dell’Utri è dirigente di banca, quando Berlusconi lo chiama e gli propone di andare a lavorare per lui come factotum, nella villa di Arcore che era appena stata acquistata. Dell’Utri accetta e si incarica della ristrutturazione della casa: «Uno se lo immaginerebbe alle prese con muratori, elettricisti, idraulici, invece lui c’aveva la fissa dello stalliere, anche se ad Arcore non c’era nemmeno un cavallo. E lo cerca, questo stalliere. In tutta Arcore, in tutta la Brianza, in tutt’Italia, ma non lo trova, nemmeno a pagarlo. Nessuno che volesse lavorare per Berlusconi, pensate com’è antico l’antiberlusconismo. Alla fine, Dell’Utri, disperato e ramengo, sbarca a Palermo e si ricorda dell’amico Mangano che, unico e solo, accetta di fare lo stalliere a pagamento ad Arcore, in una villa senza cavalli. Qualcuno dirà: “Ma come? È un mafioso!”. Sì, ma era l’unico stalliere su sessanta milioni di italiani, quindi uno deve fare il fuoco con la legna che trova».
Secondo alcuni pentiti, da quando Mangano si trasferisce ad Arcore una serie di latitanti di Cosa Nostra trovava rifugio nella casa di Silvio Berlusconi, «ma Dell’Utri smentisce, sostiene che sì, aveva degli ospiti, ma nessun mafioso. Allora i giudici gli chiedono chi fossero, gli ospiti, e Dell’Utri dice che non lo sapeva. Immaginate, ti avvii verso il bagno e vedi uscire uno sconosciuto col tuo accappatoio, il minimo che fai è scambiarci due parole, per educazione, qualcosa tipo “è calda l’acqua? È qui da molto? Pensa di trattenersi a lungo?”. Alle perplessità dei giudici, Dell’Utri risponde: “Erano persone alle quali era meglio non fare domande”». Vittorio Mangano, ricorda Travaglio, viene arrestato per due volte, e per due volte, uscito di galera, torna a lavorare in casa di Berlusconi.
Alla fine degli anni ’80, il panorama mafioso italiano cambia. Nitto Santapaola fa esplodere una villa di Berlusconi, «un segnale affinché chi doveva capire capisse. Il sistema di potere era cambiato, bisognava adeguarsi». Il 21 maggio 1992 Paolo Borsellino rilascia la clamorosa intervista a due giornalisti francesi in cui rivela l’esistenza di quelle indagini da cui sarebbe successivamente scaturito il processo a Dell’Utri per concorso in associazione mafiosa. Due giorni dopo, la strage di Capaci. È la mafia che minaccia lo Stato.
Paolo Borsellino viene ucciso il 19 luglio dello stesso anno. Ha saputo di una trattativa – racconta ancora Travaglio – che avrebbe ostacolato le sue indagini. Quella di cui parla Ciancimino jr., figlio di Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, che avrebbe fatto da intermediario tra Riina e alcuni non meglio identificati referenti politici per la consegna del celebre “papello”.
«A questo punto, Provenzano prende un’altra strada. Fa avere i dettagli del nascondiglio di Riina ai carabinieri del Ros, che lo arrestano nel suo covo il 15 gennaio 1993. Ma il covo non viene perquisito lo stesso giorno, i carabinieri lo lasciano incustodito e sono gli uomini di Provenzano a prendere ciò che c’è dentro, impossessandosi delle carte di Riina. Probabilmente una copia originale del “papello” che diventa la garanzia di Provenzano, quello che gli permette di rimanere impunito per anni».
Le stragi di mafia, che erano nel frattempo sbarcate dalla Sicilia sul continente per impulso dei fratelli Graviano, nel ’94 s’interrompono. «Provenzano riunisce i boss e sottopone loro due alternative: andare avanti col piccolo partito Sicilia libera, appena fondato, oppure appoggiare un nuovo partito nascente, a Milano, di respiro nazionale. La mafia sceglie il grande partito, Forza Italia, di Marcello Dell’Utri. Lo racconta Nino Giuffrè, collaboratore di giustizia ed ex braccio destro di Provenzano».
Il 26 gennaio 1994 Silvio Berlusconi annuncia la sua discesa in politica, a reti unificate. Il giorno successivo, a Milano, vengono arrestati entrambi i fratelli Graviano. E dopo? Il quadro disegnato da Travaglio è noto: Silvio Berlusconi diventa più volte presidente del Consiglio, proprietario della televisione e di molti giornali, e l’Italia passa attraverso le leggi antitrust che salvano il trust, la sinistra che s’impegna a resuscitare il premier quando sembra politicamente in agonia, il lodo Mondadori, il lodo Alfano, il processo Mills e la prescrizione che, a mezzo stampa, diventa assoluzione. L’Italia attraversa lo scandalo delle prostitute e quello di ministre che non si sa come sono diventate ministre, perché le intercettazioni sono bloccate in un limbo di decreti che le ostacolano, e si affida ad un premier che vuole essere sepolto in un mausoleo che s’ispira alle tombe egizie, accanto a Emilio Fede e Fedele Confalonieri.
Quindici anni di storia d’Italia con Marco Travaglio sono più di centottanta minuti di parole a ruota libera, un’enciclopedia più che un promemoria, al termine della quale la politica sembrerebbe un mostro fatto di mazzette, mafiosi e mignotte, se il giornalista non citasse, alla fine di tutto, Berlinguer: «Figuratevi se oggi un politico sarebbe in grado di fare discorsi di ampio respiro come i suoi». Se qualcuno di buono c’è stato, vuol dire che qualcuno di buono ci sarà. E forse l’Italia può ancora risalire.