THE DEREK TRUCKS BAND –
Songlines (2006, Columbia)
A soli ventisei anni Derek Trucks è uno dei più importanti e, perché no, innovativi chitarristi rock/blues del panorama statunitense. In poco tempo si è guadagnato dapprima la stima dei fan degli storici Allman Brothers entrando in pianta stabile nella formazione di Gregg Allman (un po’ del merito potrebbe anche andare alla sua parentela con lo storico batterista del gruppo, Butch Trucks, di cui Derek è nipote), e da circa dieci anni lavora a questo interessantissimo progetto di ricerca sonora (ma espanderemmo volentieri il concetto ad un livello più strettamente culturale), la Derek Trucks Band. Il suo stile chitarristico si compone di numerose sfumature, non solo per il caldo timbro adottato a metà tra il blues ed il jazz che offre così una più vasta gamma cromatica alla tavolozza dei suoni, ma anche (diremmo soprattutto) per l’ostinata propensione del giovane Derek a voler esplorare differenti linguaggi sonori provenienti da diverse culture, in una sorta di viaggio mistico (e non a caso il titolo dell’album è tratto da un libro incentrato sulla visione trascendentale della musica da parte degli aborigeni australiani scritto da Bruce Chatwin) che si pone come fine ultimo il loro perfetto equilibrio in un solo, inscindibile corpus. Supportato da una formazione che infonde tecnica e cuore alla musica ivi suonata, Songlines vale la pena d’essere sviscerato nelle sue diverse prospettive.
Basandosi sulla concezione compositiva tipica delle jam-band (a proposito di jam-band, procuratevi seduta stante il bellissimo Safety In Numbers dei grandiosi Umphrey’s McGee: diverso stilisticamente dal qui presente Songlines, ma per nulla inferiore in termini emotivi e di alta qualità. Parentesi chiusa), appellandosi al suo retaggio da bluesman che gli consente di abbeverarsi anche a materiale non originale, Trucks mette subito sul piatto l’anima (quasi) gospel di Volunteered Slavery del compositore non vedente Rahsaan Roland Kirk, condita da fraseggi bluesati e di flauto, che funge da prologo all’incalzante rythm’n’blues con lievi svisature fusion di I’ll Find My Way, in cui il coloured cantante Mike Mattison vi depone una prestazione sentita ed espressiva, grazie anche al suo timbro vocale avvolgente. In Crow Jane (essendo un traditional trasuda oralità da ogni dove) dimostra anche grande versatilità lanciandosi in un falsetto che a momenti richiama il fantasma di Janis Joplin (!). È con il qawwali griffato dal mai troppo compianto Nusrat Fateh Ali-Khan che Derek Trucks dipinge arabeschi e volte che gettano l’occhio su un giardino rigoglioso di profumate e misteriose vegetazioni su cui sorvolano coriacei ed ascetici volatili, tant’è forte e descrittiva la componente spirituale di Sahib Teri Bandi/Maki Madni. In slide-guitar è invece la rilettura della trascinante Chevrolet di Taj Mahal, anteponendosi in scaletta alla solarità quasi frivola e scanzonata del funkeggiante soul di Sailing On, come se ci trovassimo in un soleggiato e pigro pomeriggio domenicale a squarciare con la prua di una piccola barca il placido pavimento d’acqua sotto di noi. In mezzo a tutto questo ben di Dio troviamo anche passaggi di sanguigno rock/blues come Revolution o liquidi e sinuosi andamenti in chiave reggae come quello di I’d Rather Be Blind, Crippled Crazy (a firma originale di OV Wright). Non appaia esagerato se si afferma che viene in mente Ian Anderson dei Jethro Tull quando ci si imbatte nel bell’assolo di flauto in dialogo con la chitarra in All I Do, composizione nata da un’emulsione di jazz, funky/soul e percussività etnica. Aspetto, quest’ultimo che sale in cattedra nella successiva Mahjoun, dove armonie esotiche si vestono di una trasparente veste rurale americana. Anche la seguente I Wish I Knew (How It Would Feel To Be Free) è una reinterpretazione: standard composto da Nina Simone intriso di gospel a più non posso, trascinante e gaudioso nel suo incedere, precede la conclusiva This Sky dai toni fortemente crepuscolari, tanto che pare inondare di rosso il cielo mentre un sole svogliato viene inghiottito dal punto più distante scorto dai nostri occhi.
Singlines si rivela così un album dotato di una miriade di dettagli e particolari diversi che riescono a convivere tra di loro grazie ad una sapiente ed accurata miscela che li pone in giusta proporzione. Si delinea un emozionante quadro di non casuale libertà stilistica, in cui gli idiomi musicali/culturali appaiono inscindibili, in totale opposizione alla segregazione etnico/ideologica cui il mondo in cui viviamo tenta di indottrinarci giornalmente. Suoni che oltrepassano il mero concetto di musica.
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