Proiettato in anteprima nazionale al teatro Sangiorgi di Catania il docufilm sullo sfruttamento dei braccianti extracomunitari e stranieri nelle campagne della Sicilia orientale. Tra turni di almeno 12 ore al giorno e retribuzioni che dipendono dalla volontà dei caporali. E spesso le donne sono obbligate alla prostituzione
Terranera, videoinchiesta della Cgil sui braccianti Una lavoratrice: «Possono farci qualunque cosa»
Terranera. Non poteva avere altro titolo che questo il film inchiesta presentato ieri sera in anteprima nazionale. Realizzato da Massimo Malerba e Riccardo Napoli tra Paternò, Adrano, Aci Catena e Vittoria, è la denuncia dello sfruttamento dei braccianti stranieri, che ogni notte popolano le piazze di questi Comuni per essere caricati su furgoni e trasportati sul luogo di lavoro: la terra. Terra rossa, terra gialla, terra che si impregna dell’ingiustizia che vi si consuma, diventando terranera. Un film di denuncia, sulla criminalità organizzata che gestisce i lavoratori senza nessuna umanità, ma anche sull’assenza delle istituzioni. Sono passati solo pochi mesi da quando, lo scorso autunno, il primo scandalo travolse le campagne di Vittoria, in provincia di Ragusa, dove un’inchiesta giornalistica portò alla luce la condizione di vita delle donne extracomunitarie, costrette a fatiche enormi per pochi euro e a prostituirsi: tre euro sesso compreso, anzi a condizione del sesso. Vittoria è la prima terranera del docufilm, che dà voce proprio ad una di queste donne: «Qualunque cosa possono farci, loro sono niente». Parole ricolme di forza, ma anche di rassegnazione: proprie di chi ha già subito tutto e, perciò, è pronto anche a tutto il resto.
Ma le campagne ragusane non sono le sole gestite nell’illegalità; presto altre inchieste giornalistiche hanno portato alla ribalta l’esistenza di situazioni simili anche in quelle catanesi. Un mercato della terra, gestito totalmente in nero e con turni di almeno dodici ore al giorno. Orario di lavoro: «Dalla mattina alla sera». Retribuzione: «Chidda ca ci piacia a iddi. Lo scopriremo solo quando ci pagheranno», rispondono i coltivatori intervistati. Queste le clausole contrattuali imposte dai caporali che gestiscono le coltivazioni tra Adrano, Paternò e Aci Catena. Una vera e propria schiavitù, fondata su un’illegalità che però ha delle regole: il 50 per cento del guadagno, infatti, va al caporale di riferimento. Insomma, un vero e proprio pizzo, che coniuga clandestinità e mafia. «Una realtà invisibile, che si consuma dalle 4.30 del mattino fino all’alba, per poi sparire agli occhi della comunità», afferma Massimo Malerba, coautore del film.
Uno sfruttamento che non risparmia né donne né bambini e che costituisce violazione di ogni ramo dell’ordinamento giuridico, da quello civile a quello penale. Ma che, nonostante ciò, si è protratto indisturbato per mesi sotto gli occhi delle istituzioni. «Le denunce del sindacato di strada non bastavano più, non ci ascoltava nessuno», afferma Alfio Mannino, sindacalista della Federazione dei lavoratori dell’agroindustria, legata alla Cgil, dopo la proiezione del documentario. «Di fronte a queste immagini, invece, le istituzioni non possono più voltarsi dall’altra parte. Abbiamo voluto realizzare un’azione originale, per dare una speranza concreta a quegli extracomunitari, ormai troppo rassegnati all’indifferenza istituzionale». E il messaggio è stato accolto dall’assessore alla Trasparenza e alla Legalità del Comune di Catania Rosario D’Agata e dal procuratore capo Giovanni Salvi, presenti in sala. Impegnati, spiegano, nella repressione dello sfruttamento dei coltivatori di terranera.