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Siccità, il cronoprogramma per i dissalatori: tra bandi e criticità, non tutti saranno pronti entro l’estate

Quello dei dissalatori è un capitolo oltremodo cangiante per la Regione siciliana. A febbraio erano tre – Porto Empedocle, Trapani, Gela – e sarebbero bastati venti milioni di euro per riattivarli, in attesa, poi, di ulteriori lavori. A marzo si era parlato di due – Trapani e Porto Empedocle – per cui era arrivato pure l’ok da parte della Commissione tecnico specialistica regionale per le autorizzazioni ambientali per il revamping, che pure diversi esperti, anche a livello universitario, avevano visto come complesso e antieconomico, viste le condizioni di abbandono in cui gli impianti versavano – e versano -, con in alcuni casi parti mancanti. Si era parlato, lo si era fatto più o meno dall’inizio, di uno sforzo da 90 milioni di euro e il presidente della Regione Renato Schifani si era messo in prima fila, seguendo di persona la vicenda. Poi la boutade di WeBuild, l’azienda che dovrebbe costruire il ponte sullo Stretto, o meglio, del suo amministratore delegato Pietro Salini, che in pubblica piazza aveva dichiarato l’intenzione di donare alla Sicilia due dissalatori, che stavolta avrebbero servito il Palermitano, del valore di 900 milioni di euro, tutti finanziati dal privato. Una boutade, appunto, o poco più, che ha costretto il governo a replicare numeri alla mano: le strutture proposte erano incredibilmente sovradimensionate rispetto al fabbisogno del territorio e comunque mantenerle in funzione sarebbe costato ai cittadini qualcosa come 274 euro all’anno a testa. Quindi? Cosa si farà? A che punto siamo?

Il piano, all’ultimo aggiornamento, è quello di installare sicuramente due dissalatori mobili. Non si tratta di quelli a lungo inseguiti dalla Regione in passato, ma di veri e propri impianti modulari, che installati nel territorio – in questo caso ancora Gela e Porto Empedocle, dove i lavori sono già partiti da un mese circa – dovrebbero riuscire a soddisfare il fabbisogno delle rispettive zone. Costo dell’impresa cento milioni di euro, per larghissima parte coperti dalle finanze del fondo Sviluppo e coesione. Le indicazioni geografiche sono praticamente obbligate, visto che la presenza dei vecchi impianti facilita le cose da diversi punti di vista strutturali: allaccio alla rete idrica, presa a mare delle acque e soprattutto gli scarichi della salamoia, del sale cioè estratto dall’acqua di mare, che va smaltito in maniera ponderata e scientifica, non può essere semplicemente riversato nelle acque marine, dove creerebbe non pochi problemi ambientali per l’eccessiva salinità della zona di scarico. Questi dovrebbero – il condizionale è d’obbligo – essere pronti entro luglio, almeno secondo quanto annunciato da palazzo d’Orleans. 

E poi ci sono i due dissalatori palermitani. Poco o niente si conosce delle tecnologie con cui saranno costruiti, anche se con tutta probabilità anche loro saranno impianti mobili. A dirlo è la disponibilità finanziaria riportata nel bando con il quale la Regione cerca partner finanziari. Privati che dovranno coprire 170 dei 180 milioni di euro messi sul piatto, con una spesa pubblica – è chiaramente specificato – che non dovrà superare i dieci milioni di euro. Per avere acqua desalinizzata made in Palermo, tuttavia, bisognerà aspettare molto più tempo: il bando – pubblicato la scorsa settimana – fissa la scadenza per la presentazione delle proposte al 25 luglio. Seguiranno poi le operazioni di valutazione e di assegnazione. Infine i lavori di realizzazione, che stavolta sì, dovranno ex novo comprendere soluzioni – richieste peraltro dal bando stesso – per l’allaccio alla rete e per lo smaltimento della salamoia. Insomma, non si tratta di un processo breve. E in mezzo potrebbero anche mettercisi i ricorsi delle varie associazioni ambientaliste, che da tempo hanno bocciato la via della desalinizzazione intesa come principale fonte di approvvigionamento dell’acqua per una Sicilia che, nonostante le piogge degli ultimi mesi, rischia ancora – sempre – di rimanere a secco. 


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