Teatri, stagioni a rischio senza finanziamenti «Non servono più fondi ma nuove regole»

«La crisi che stanno attraversando i teatri catanesi riguarda tutti i teatri italiani, che oscillano sempre di più tra l’abbandono, l’indifferenza, l’occupazione romantica o in alcuni casi il bieco esproprio di fatto. Il punto non è quanto si fa dentro il teatro, opera o prosa, non sono le etichette che lo possano salvare. La questione cruciale è innervare il teatro nella vita quotidiana della città, riconquistandone spazi magnifici e superando i protocolli rituali tipici della società ottocentesca». È questa la ricetta di Michele Trimarchi, siciliano esperto di economia e politica della cultura. Professore ordinario di Analisi economica del diritto all’Università di Catanzaro Magna Graecia, insegna Cultural economics all’Università di Bologna e nei più prestigiosi master in gestione della cultura. Nel 2008 è stato presidente del teatro dell’Aquila. «Un’esperienza breve e intensa, fermata dal terremoto e chiusa da un uso arbitrario dello spoil system con il cambio di giunta regionale», racconta, durante la quale ha «cercato di attivare quante più connessioni si potesse, tanto con gli altri professionisti della cultura quanto con la comunità territoriale».

Connessioni, contemporaneità, semplificazione. Nella ricetta di Trimarchi manca la parola finanziamenti, quello che invece sembra l’ingrediente base per la sopravvivenza dei teatri etnei, il Bellini e lo Stabile. La manovra finanziaria, che dopo tante polemiche e rinvii è stata approvata dall’Ars mercoledì, ha confermato i tagli ai fondi per la cultura. Circa un milione di euro andrà allo Stabile e quasi sette milioni e 300mila per il lirico Bellini. Cifre irrisorie rispetto ai costi. Ma è possibile che i teatri possano farcela senza contributi pubblici? CTzen lo ha chiesto all’esperto.

Nella gestione dei teatri gli enti sembrano incatenati ad un modello farraginoso, clientelare, assistenziale e non più perseguibile a fronte dell’enorme indebitamento della Regione siciliana. Cultura e spettacolo possono assumere i connotati dell’impresa e sopravvivere senza il finanziamento pubblico? Cosa deve cambiare e su cosa si deve puntare?
«Il sistema teatrale italiano attraversa una fase di profonda incertezza e fragilità. Le cause sono molteplici, e in gran parte derivano a cascata da una legislazione obsoleta, censoria, assistenziale e incline a premiare la stasi confondendola con la stabilità. Troppe etichette, troppi obblighi formali senza tenere mai conto della sostanza. Nel frattempo il mondo, la società e la cultura corrono a velocità imprevedibile e al tempo stesso irredimibile: niente sarà più come prima, invocare la Costituzione e pretendere che i fondi pubblici tornino al livello – già sufficientemente basso – di prima è un’illusione velleitaria. La Regione Siciliana paga lo stesso prezzo, con alcuni addensamenti derivanti da un eccesso di sicurezza del passato, e alcune eccezioni che dimostrano il possibile come prodotto dell’iniziativa imprenditoriale responsabile, dell’attenzione della comunità territoriale, anche della capacità di attingere ai fondi pubblici senza usarli come sinecura. Tra queste, per esempio, Zo Culture, Scenario Pubblico, la compagnia Scimone-Sframeli e i formidabili Carullo-Minasi. La cultura e le arti del palcoscenico ancor più dell’arte visiva, in questo momento, possono esprimere un valore unico e infungibile verso il quale i mercati e le imprese si rivolgono con sempre maggiore attenzione e interesse. Ma per affrontare un coagulo di mercati inediti non si può più fare ricorso alla vecchia cassetta degli attrezzi. Occorre ibridare i vocabolari dell’espressione, attivare e consolidare canali cross-mediali, invadere gli spazi urbani uscendo dalle torri d’avorio, corteggiare il pubblico mancato: oltre sette persone su dieci che in un anno non vanno mai a teatro non sono ignoranti o barbari, semplicemente è il teatro a snobbarli».

Quindi i punti critici nella gestione dei teatri sono diversi. La crisi non dipende solo dai finanziamenti carenti come dicono i direttori.
«Un teatro è una macchina complessa e delicata, e funziona in un contesto culturale, sociale ed economico che cambia in modo repentino e se vogliamo scomposto. La flessibilità, la versatilità cosmopolita, la capacità di anticipare scenari semantici e relazionali appaiono condizioni imprescindibili perché il teatro non diventi un museo di sé stesso. I finanziamenti non sono più generosi come qualche anno fa, ma le regole che ne governano i meccanismi sono bizantine e opache. Accrescere i finanziamenti senza modificare radicalmente le regole equivale a dare un farmaco sbagliato in dosi maggiori: il paziente muore prima. È tempo di superare le gabbie burocratiche che in definitiva strangolano il teatro, rendendolo più simile a una catena di montaggio che non a quella formidabile fucina artigiana che dovrebbe essere e che è stato nel corso dei secoli. La Regione siciliana potrebbe indirizzarne una salutare evoluzione percorrendo i margini consentiti dalla sua autonomia e comunque dallo status regionale che non la obbliga a clonare la legislazione statale».

Paradossalmente, invece, in Sicilia il sistema sembra essersi bloccato, e favorire – quando lo fa – chi produce meno. Catania Jazz, per esempio, è l’associazione siciliana più produttiva nel suo ambito e quella che ha più seguito di pubblico ma è la meno finanziata, soprattutto rispetto ad altre che spendono di più senza raggiungere gli stessi risultati, per successo, numero e qualità degli spettacoli. Lei parla di nuove regole da applicare al sistema dei finanziamenti. Quali dovrebbero essere?
«Un modo semplice per regolamentare i finanziamenti pubblici sarebbe collegarne l’erogazione e la dimensione al perseguimento di obiettivi pubblici chiari e misurabili. Per essere elementare, non già la protezione della cultura – che è una frase da Bacio Perugina – ma l’aumento percentuale del pubblico di anno in anno, magari identificando i quartieri della città nei quali si registra l’aumento più consistente e premiando chi riesce ad attrarre le periferie. E così di seguito ci sono molti obiettivi pubblici misurabili ai quali si potrebbe e si dovrebbe parametrare l’azione culturale collegandovi i fondi pubblici. Se poi si vuole essere più efficaci si potrebbe verificare quanti beni e servizi in-kind potrebbero ridurre il fabbisogno finanziario delle organizzazioni dello spettacolo, dalla concessione gratuita di spazi urbani alla dotazione tecnologica, dalla strumentazione tecnica a molti servizi che potrebbero essere semplicemente forniti evitando il labirinto dei passaggi di denaro che rende il sistema vigente più opaco e meno tracciabile. Si tratta di semplificare, in definitiva: eliminare le complessità burocratiche, incoraggiare la geometria variabile, fornire infrastrutture e servizi, e alla fine concedere fondi pubblici nella misura in cui ciascun destinatario contribuisce effettivamente a perseguire obiettivi della comunità».

 

[Foto di hotblack]


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