Sulla schiavitù

Un fantasma si aggira per le università italiane: è quello, emaciato e insicuro, del ‘cultore della materia’.
Questa altisonante qualifica, di sapore così chiaramente italico, corrisponde a realtà ben più prosaiche. I cultori della materia sono studiosi cui viene riconosciuta competenza in un certo ambito disciplinare e appartenenza a una ‘cattedra’. In teoria essi possono essere ‘strutturati’ all’interno di una facoltà come ricercatori o docenti temporanei a contratto. Ma nella maggior parte dei casi essi non hanno altra qualifica che quella di cultore della materia. In questo caso i regolamenti di ateneo parlano chiaro: È in ogni caso escluso lo svolgimento da parte dei cultori di altre attività istituzionali, sotto qualsivoglia forma (lezioni, seminari, esercitazioni, assistenza agli studenti), fatte salve le attività connesse al proprio ruolo (regolamento 7 maggio 2008 n. 11 art. 1 dell’università di Messina, da Internet).
In pratica, i cultori della materia esistono solo per fare esami quando c’è bisogno di qualcuno e nessuno dei membri dell’organico ufficiale del dipartimento è disponibile. Non sono pagati, non possono insegnare (a meno che, come abbiamo visto, non abbiano un contratto di altro tipo, gestito da procedure indipendenti) e non possono accampare nessun diritto di tipo sindacale. Possono stare a fare esami per dodici ore, redigere verbali fino a quando il polso fa male, talvolta senza che nessuno offra loro in cambio un pasto, un caffè, o un passaggio a casa.
 
Sono degli ectoplasmi accademici.
 
Questa assurda categoria di non-persone non è un’aberrazione di qualche università di provincia. E’ un’entità giuridica riconosciuta dal diritto italiano. Il cultore della materia è menzionato, come possibile terzo membro di una commissione d’esami, dal decreto regio del 4 giugno 1938 n. 1296 art. 42. A suo tempo la mansione di cultore della materia fu probabilmente creata per dare un’identità legale a quelle figure di studiosi o promettenti studenti che affiancavano i professori nelle attività di cattedra. Fin qui non c’è niente di male. Solo che i tempi sono cambiati. Nel 1938 ci sarà stato uno sparuto gruppo di cultori della materia in ogni dipartimento: giovani molto dotati che di lì a poco sarebbero probabilmente stati elevati al rango di cattedratici. Adesso ogni cattedra ha un manipolo nutrito di cultori della materia cui viene chiesto di fare di tutto, dagli esami alle fotocopie. Esattamente settant’anni dopo queste persone non hanno quasi nessuna possibilità di ‘sistemarsi’ in tempi stretti.
 
Si tratta di un accordo al quale nessuno studioso che abbia velleità di fare carriera può sottrarsi. Oggigiorno essere cultore della materia dà a molti laureati, dottorandi e addottorati la possibilità di continuare a collaborare con una cattedra, nell’attesa beckettiana che arrivino un assegno di ricerca o un posto fisso. In mancanza d’altro – di tutto il resto – dire di no a quest’offerta significa “uscire dal gruppo”, non avere neppure un barlume di ragione per la quale varcare la soglia del dipartimento e sedersi nello studio del professore.
 
Si assiste al paradosso di capaci giovani studiosi che litigano per fare il cultore della materia. La tanto vilipesa qualifica è per alcuni motivo di orgoglio, un lasciapassare per il sancta sanctorum della cattedra. In un sistema universitario in cui molti posti di lavoro vengono assegnati per ragioni ‘politiche’, prima ancora che per meriti scientifici, avere un piede dentro è molto più importante di non farsi sfruttare.
Che sia una situazione vergognosa, una forma di schiavismo bello e buono perpetrato con il beneplacito delle istituzioni, è abbastanza chiaro. Nell’università pubblica gli esami sono la parte più onerosa per il corpo docente: giorni e giorni, ore e ore di continui esami orali a stuoli di studenti, con più di una sessione per periodo. Nessuna sorpresa se non c’è abbastanza organico per farli tutti. Nessuna sorpresa se chi può vi si sottrae. Nessuno scandalo se a sostituire chi dovrebbe fare gli esami, perché in più alte faccende affaccendato, è una categoria di persone mantenute in vita unicamente per questo. Per questi martiri dell’università pubblica “Non è ammesso lo svolgimento di attività istituzionali come lezioni o esercitazioni. Non è riconosciuto alcun compenso o rimborso. Non è previsto un limite di età per lo svolgimento dell’attività” (regolamento di ateneo dell’università Ca’ Foscari di Venezia: il primo che si trova su internet).
Lasciamo pure da parte la questione di lana caprina: come può una persona che non partecipa in alcun modo alla didattica di un corso essere nelle condizioni ideali per giudicare la preparazione di uno studente e il suo livello rispetto a quello dei suoi colleghi dello stesso anno? Gli studenti non sono entità astratte, tutti uguali saecula saeculorum!
 
Concentriamoci sulla mancata retribuzione. Come è possibile che una persona che non percepisce altra remunerazione da una facoltà possa lavorare completamente gratis per la stessa? Cos’è: una forma di volontariato? È pleonastico aggiungere che in altri posti (ad esempio in Inghilterra) chi fa esami ha mansioni didattiche e percepisce uno stipendio dall’istituzione per la quale fa esami. Chi non è un pagato dall’istituzione (ad es. perché non fa attività didattica) viene remunerato a parte per il suo ruolo di esaminatore.
 
È possibile cambiare questa situazione vergognosa? Certo, i tempi non sono dei migliori per chiedere al ministro Gelmini di trovare i fondi per pagare i cultori della materia per le ore che passano ad esaminare: se non ci sono fondi neppure per pagare le classi alte, figuriamoci gli schiavi. Ma questa è la vera soluzione, l’unica strada che un ministro e un Paese con una dignità dovrebbero intraprendere. Fra l’altro, la mutazione dei cultori della materia da volontari a persone che percepiscono retribuzione per le prestazioni occasionali che svolgono potrebbe mettere un freno all’uso della ‘promozione’ a cultore da parte di alcuni professori come sorta di ricatto (io ti dò uno status di qualche tipo, tu in cambio mi dai molte ore del tuo tempo).
 
E i professori stessi? Coloro che sono sinceramente dispiaciuti della schiavitù alla quale sono costretti i loro più dotati allievi potrebbero pensare di mettere in atto una forma di “riconoscimento privato” pagando i cultori della materia con una parte (peraltro minima) del loro stipendio. Non ha senso, altrimenti, tuonare contro una situazione politica ed economica che costringe stuoli di persone con un dottorato al precariato a vita o addirittura alla disoccupazione.
Nessuno è privo di responsabilità in questo circolo vizioso. Intelligenti pauca.
 
*Olga Tribulato ha studiato lettere classiche nelle università di Catania e Roma, per poi trasferirsi in Inghilterra, dove ha conseguito master e dottorato all’università di Cambridge. È stata ricercatrice all’università di Oxford e al momento insegna greco antico e linguistica all’università di Cambridge. Ha un sogno: tornare e insegnare in Sicilia.


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