Strage di via Pipitone Federico, una cerimonia deserta Caterina Chinnici: «Solo istituzioni, ma giovani assenti»

«Purtroppo accade ogni anno, la presenza maggiore è sempre quella delle istituzioni. Certo oggi è il 29 luglio, molti sono in ferie. È sempre così, dispiace soprattutto che non ci siano tanti giovani perché a loro mio padre aveva dedicato il suo impegno e le sue attenzioni». Più che la rabbia è la rassegnazione che traspare dalle parole di Caterina Chinnici, la figlia del giudice Rocco ucciso 33 anni fa dalla mafia nella strage di via Pipitone Federico, assieme ai carabinieri della scorta Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e Stefano Li sacchi portiere dello stabile in cui il magistrato abitava. Il riferimento è alla cerimonia che ogni anno si svolge nella strada dove l’autobomba collocata da Cosa nostra spazzò via in pochi secondi il magistrato da tutti ritenuto il padre della lotta alla mafia, grazie all’intuizione geniale del pool antimafia, e l’iniziatore delle grandi indagini internazionali. Anche oggi, in via Pipitone, a parte i rappresentanti delle istituzioni, della magistratura e delle forze dell’ordine, a mancare era proprio la gente comune. 

Pochi minuti dopo, cambia il luogo ma la sostanza rimane la stessa: ad eccezione dei ragazzi dalla cooperativa Libera-mente – impossibile non notare le loro magliette rosse – anche nell’aula magna del Tribunale di Palermo, dov’era prevista la tavola rotonda Terrorismo internazionale e criminalità organizzata: quali collegamenti?, sono tante le sedie rimaste vuote. «Mi fa piacere essere stata smentita, almeno per quanto riguarda la presenza dei ragazzi qui – dice vedendo arrivare i giovani che lavorano nei campi confiscati alla mafia – ma l’importante è che venga ricordato l’impegno di mio padre dalle istituzioni e anche dai cittadini, forse pochi perché distratti dall’atmosfera estiva, ma che vengono ogni anno». L’incontro è stato l’occasione per parlare delle connessioni tra mafia e terrorismo, ma anche dell’impegno concreto dei singoli cittadini per realizzare quel rinnovamento dal basso auspicato dal giudice Chinnici che per primo intuì l’importanza di parlare ai giovani. 

«Per me antimafia – spiega – significa fare ogni giorno il proprio lavoro per affermare la legalità  in qualunque settore. E credo che la presidente della commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi, durante la sua visita a Palermo, intendesse dire proprio questo: serve un’antimafia vera. Qualche professionista dell’antimafia forse c’è stato, ma la vera antimafia credo che i risultati li abbia ottenuti e portati avanti e che le cose in Sicilia, rispetto a trent’anni fa, siano molto cambiate». Secondo la figlia del giudice non è comunque il momento di abbassare la guardia, l’azione di contrasto alla mafia «non si è mai conclusa e bisogna continuare a lavorare con impegno, sono in tanti che lo fanno nelle istituzioni ma anche tra i giovani – aggiunge – come i ragazzi di Addiopizzo».

Al dibattito era presente anche il figlio del giudice Giovanni, oggi avvocato è presidente della fondazione intitolata al padre, che ha ricordato proprio il suo impegno al di fuori delle aule di tribunale. «Parlava ai giovani, andava nelle scuole per incontrare i ragazzi perché desiderava far conoscere loro cos’era la mafia e quale incidenza negativa avesse nella società e nei meccanismi democratici. Negli anni settanta la parola mafia neanche si pronunciava, non si aveva idea di cosa fosse. Persino alcuni esponenti delle istituzioni negavano l’esistenza di questo mostro per i quali la mafia era solo un’invenzione di alcuni giudici per fare carriera. Rocco Chinnici parlava ai ragazzi e diceva ‘noi da soli senza una nuova coscienza non ce la faremo mai’. Senza una presa di coscienza della società – conclude – non riusciremo a sconfiggere la mafia».

Antonio Mercurio

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