Sebastiana Vinciguerra è nata a Catania nel 1921. Ed è morta la sera di ferragosto di quest'anno, pochi giorni prima di compiere ufficialmente 94 anni. Veniva da Ognina, faceva la fila al mulino di Misterbianco per il pane ed era a Palazzo San Demetrio poco prima che venisse distrutto. Guarda le foto
Storia di Nellina e di quasi un secolo di Catania Tra la Ognina del ventennio e i bombardamenti
È nata a Catania nel 1921. In un giorno di agosto che sarebbe il 2, ma nei documenti è il 20. Sebastiana Vinciguerra viene al mondo in un momento in cui si portava avanti un’abitudine un po’ particolare: registrare i neonati dopo la data di nascita effettiva. Un costume scaramantico che nella Sicilia di qualche tempo fa restisteva: per essere certi che il bambino non morisse, in un periodo in cui la mortalità infantile era piuttosto ragguardevole, per prudenza non veniva registrato prima di aver atteso tempo a sufficienza affinché si fosse certi delle sue condizioni. Un caso celebre è Giovanni Verga, nato nelle campagne di Vizzini e registrato quasi una settimana più tardi a Catania.
Sebastiana è nata da donna Francesca Iacobacci e da Domenico, assessore comunale che rimarrà di stampo defeliciano anche nella Catania poi pesantemente fascista e per questo perseguitato. Il fascismo a Catania prese piede soprattutto dopo le purghe politiche rivolte agli sturziani e ai socialisti. Eredi dei fasci dei lavoratori che potremmo definire, a ragione, tra i primi sindacati d’Italia. Nonché il primo movimento di antimafia della storia.
Erano anni pesanti, quelli del ventennio a Catania. Le famiglie avevano diritto a cento grammi di pane al giorno e lei, signorina quasi ventenne, faceva come tutti la fila al mulino di Misterbianco con in mano il foglio dell’annona. Partendo a piedi dal quartiere di Ognina, dove abitava. Le file per il pane iniziavano quasi all’ultimo orario della notte, per prendere la porzione spettante. Il panificio apriva verso le otto del mattino e ognuno prendeva la propria parte ricevendo un bollo sul foglio dell’annona. Poi a un certo orario, giovani con camicie nere arrivavano con una camionetta, prendevano tutto e il panificio chiudeva. Lasciando le famiglie rimaste indietro in fila senza nulla da mangiare per quel giorno. Erano i tempi in cui le case si lasciavano aperte, perché non c’era nulla da rubare.
A quel tempo Ognina doveva sembrare un altro universo: borgo peschereccio con ambizioni industriali; L’insulare dei Borgetti con alte ciminiere; le carcare, fornaci di laterizi, di papà Domenico; i binari; le villette concentrate in via Messina. Ovunque era una città operosa e attiva. I mezzi di informazione principali erano i giornali e la radio. Sebastiana la troviamo ventiduenne in piena guerra. Nel 1943 era signorina – cosa piuttosto insolita per gli anni ’40, periodo in cui le donne venivano accasate piuttosto giovani – e lavoratrice: commessa in un negozio di abbigliamento di alta moda in centro, affacciato sul Piano di Aci.
Quando era necessario, ognuno si rifugiava dove poteva: l’anfiteatro, le chiese, la cava Daniele e tutte le altre miniere di rena rossa (attrezzate apposta allo scopo). Ma nei momenti di calma la vita procedeva come nulla fosse. Per questo una triste mattina primaverile Sebastiana entra a fare una consegna al secondo piano del palazzo San Demetrio, ai Quattro Canti. Effettuata la consegna, scende di fretta le scale per raggiungere il negozio ed è allora che vede una figura femminile ammantata di luce, ma dura un attimo: pochi istanti dopo è già in strada. Un vigile urbano in tenuta estiva, vedendola, le dice di rientrare nel palazzo, poiché le sirene stanno suonando l’allarme antiaereo. Lei replica che di corsa può raggiungere facilmente il negozio ed è lì che vuole rifugiarsi. «Va bene signorina – le dice il vigile – Si spicciassi! Si spicciassi!».
Passano gli aerei americani. Nessun superstite quel giorno tra le macerie del palazzo San Demetrio. E migliaia di morti nel resto della città. Finito il bombardamento, Sebastiana torna indietro e vede quel vigile nella sua tenuta bianca sporca di sangue e di polvere. Lui che poco prima l’aveva invitata a rientrare nell’edificio. Scoprirò molti anni dopo che il braccio di quell’agente fu la prima immagine che i giornali dell’epoca pubblicarono di quella tragica mattina, lo stesso uomo che forse come ultima persona vide proprio lei, Sebastiana Vinciguerra.
Gli anni della guerra la segnano quel tanto che basta per trovarla sempre restia a raccontare il suo passato. Nel dopoguerra studia per diventare maestra: ama il contatto con i bambini e vi si ritrova con quel bel sorriso e quelle guance da infante. Lascia però gli studi a fine corso, pare per aiutare la famiglia. In seguito viene combinato dai parenti il matrimonio con Concetto Prato, di sei anni più grande, già combattente in Eritrea e prigioniero inglese in India. Concetto avrà sempre una parte di cuore in queste due nazioni, dove ambienterà, scrittore dilettante, alcuni romanzi. Sebastiana è piuttosto grande per il suo primo figlio, ma analizzando l’albero genealogico pare che il ramo dei Vinciguerra per almeno tre generazioni avesse la primogenitura passati i trent’anni. Dalla coppia nascono tre figli, i cui nomi sono elegantemente presi da illustri gens latine.
Sebastiana visse a lungo in quel di Ognina, in un rione artigiano, operaio e impiegatizio, specchio di una città molto attiva. Concetto costruisce una casa tra le sciare del Rotolo, con un grande cortile dove stavano i cani, animali che amava particolarmente. Lì davanti, una grande carcara, dove alcuni parenti preparavano mattoni, tegole e quant’altro. In anni molto più recenti la coppia si trasferisce nelle palazzine di Cibali in costruzione, che si affacciano sul parco Gandhi. Forse è in questa occasione che imparo a conoscerla.
Di nonna Nellina – così la conosciamo tutti – ho questo bellissimo ricordo a Villa Trevelyan di Taormina, quando ancora gli edifici erano praticabili. Lei si affacciava con noi piccoli cavalieri e damigelle nel castello delle fiabe. Ma le fiabe finiscono e all’alba degli anni ’90 moriva Concetto. Non era certamente una coppia perfetta, ma lei non prese molto bene la solitudine, pur essendo circondata e voluta bene dalle famiglie dei due figli più legati. Ormai l’ultimo anno si ritrova bloccata al letto. Ha compiuto 93 anni, ha visto tanto e vissuto altrettanto, ma non ha più volontà. Una serie di ictus la costringono ad un ricovero d’urgenza, dove la noncuranza da parte del personale le ha fatto sorgere diverse piaghe. Viene trasferita a fine giugno in un centro riabilitativo, dove è chiamata affettuosamente «nonnina». Ma ormai Nellina ha già superato i 94 anni. Mancano cinque giorni al compimento ufficiale e, sopportando silenziosamente e coscientemente il dolore, si spegne nella sera del ferragosto del 2015, il giorno dell’Assunzione.