Storia di Emanuele, il ragazzo della Valle del Simeto che ha sfidato la mafia

di Helga Marsala

“Io la mia terra non la lascio: è come chiedermi di smettere di respirare”.

Perentorio Emanuele Feltri (nella foto a sinistra e, sotto, a destra), che di mollare la presa non ne vuole sapere. Combattivo, testardo, romantico, di un romanticismo ruvido, senza orpelli. Crederci e combattere: imperativo categorico da uomo di trincea, quando la trincea è quella della politica sana per la difesa dei propri territori. Ma solo se l’aggettivo “proprio” cammina con l’aggettivo “comune”, provocatoriamente. Perché dalle sue parti, in certe pieghe remote delle campagne siciliane, il concetto di bene collettivo, di legalità a tutti i costi, di rispetto dello Stato, è un po’ una provocazione. Per non parlare di quelli di “denuncia” ed “antimafia”.

Tra etica sociale e vocazione bucolica, il mondo di Emanuele è un mondo fatto di sacrificio, di scelte non negoziabili, di amore per le radici e di rispetto per l’ambiente, inseguendo quella sostenibilità ecologica ed economica che fa, oggi, un buon imprenditore agricolo. Arrivato da esperienze di controcultura e azionismo indipendente, 34 anni, perito agrario, Emanuele a un certo punto lascia la città e segue il richiamo della terra: nei pressi di Paternò, nel cuore della Valle del Simeto, sceglie una zona da tempo abbandonata e vi impianta la sua piccola azienda biologica, cominciando la sfida.

Siamo su una collina, in contrada Sciddicuni, con vista sull’Oasi avifaunistica di Ponte Barca, dal 2009 area protetta per effetto di un decreto regionale. Protetta si fa per dire. Perché mai nessuno, in realtà, s’è speso per questi luoghi. Cartelli con indicazioni naturalistiche? Pulizia dei boschi? Controlli della Forestale? Piantumazioni e interventi botanici? Servizi per turisti? Macché! L’Oasi è oasi solo sulla carta e in ragione di una bellezza naturale, lasciata però all’incuria e all’azione di prevaricatori ambientali: chi inquina, chi caccia, chi delinque, chi incendia. Fuori dalle regole, sempre. Ed Emanuele Feltri non ci sta.

Non ci sta a tutta questa distrazione, a questa inciviltà nutrita di abbandoni e che fa dell’abbandono una convenienza, un’occasione: nelle terre di nessuno, si sa, è facile che fiorisca il malaffare, che si radichi la prepotenza, che s’impiantino più crimini che arbusti, lasciando germinare l’illecito.

Per due anni Emanuele ha denunciato. Attraverso azioni pubbliche insieme alle associazioni territoriali, attraverso una resistenza quotidiana, attraverso una costante rivendicazione della propria libertà. Denunciare cosa? L’antica tradizione del “pizzo”, concesso come “buona” pratica ai guardiani, per proteggere le compagne dai furti; le discariche abusive, con i camion che scaricano quintali di copertoni e ogni tipo di rifiuto; la condizione di sofferenza del fiume, dove Legambiente ha rilevato una continua moria di pesci e dove, probabilmente, qualcuno si sente libero di versare sostanze nocive; e poi i bracconieri che sparano agli aironi, l’assenza di vigilanza e di manutenzione nei boschi, le zone archeologiche incustodite, con pitture rupestri e reperti preellenici che hanno fatto la fortuna di ladri e tombaroli; fino a quella “mafia” che si infiltra nelle filiere di produzione, soffocando il piccolo agricoltore e imponendogli prezzi, passaggi, sudditanze, a vantaggio infine della grande distribuzione.

E per due anni Emanuele lo hanno osteggiato, standogli col fiato sul collo: “vattene, è meglio per te”. Gli hanno bruciato l’agrumeto, danneggiato l’impianto d’irrigazione, rubato attrezzature, violato casa e capannoni. Finché lo scorso 29 giugno sul piatto ha trovato una minaccia, di quelle che fanno i mafiosi veri, con tanto di simboli e cerimoniale: Emanuele torna a casa e davanti la porta trova le sue pecore. Ammazzate, sparate. Con una testa d’agnello poggiata al suolo. Più chiaro di così, si muore. Letteralmente.

Una manifestazione di solidarietà, il 7 luglio, raduna circa 500 persone in Contrada Sciddicuni. Il caso esplode. E la risposta arriva due giorni dopo: un agnello sventrato, come nuovo “regalino”. Il messaggio è chiaro: noi non abbiamo paura, sei tu che devi mollare.

E però lui la sua terra non la lascia. È come chiedergli di non respirare. Consegna allora un memoriale ai Carabinieri di Paternò, col racconto di quanto visto, accaduto, subito in questi anni, e il baccano nel frattempo sale: la stampa, le autorità, l’opinione pubblica, i social network, tutti parlano, commentano, solidarizzano, denunciano. Mentre un Coordinamento spontaneo di cittadini, assolutamente trasversale e privo di connotazioni politiche, scende in campo al fianco Emanuele per condividere la sua lotta, in difesa della Valle e del fiume. (a sinistra, Emanuele Feltri con il sottosegretario, Giuseppe Beretta)

Poi le Istituzioni, dicevamo. Le grandi assenti, come ha più volte denunciato lui stesso. Ma qualcosa è cambiato, forse. Mentre il Prefetto di Catania si impegna personalmente, in presenza dell’associazione Libera, a offrirgli protezione contro nuove intimidazioni, il sindaco di Paternò, Mauro Mangano, sposa la causa, lo incontra con il Sottosegretario alla Giustizia, Giuseppe Berretta, e prova a dare qualche segnale: dopo l’insistente richiesta da parte del Coordinamento di chiudere gli accessi dei camion all’Oasi – gli tessi che scaricano rifiuti – provvede allo sbarramento. I mezzi pesanti non possono accedere alle riserve protette. Risultati? Catene e paletti puntualmente spezzati.

E qui subentra il Governatore della Sicilia Rosario Crocetta, che in un colloquio vis à vis con Emanuele accoglie una serie di richieste e promette di intervenire su tutti i fronti: presenza stabile delle guardie forestali dentro al parco; ripristino delle tante strade dissestate e inaccessibili, che non consentono ai mezzi dei contadini di muoversi agilmente sul territorio; gestione reale dell’Oasi, dal punto di vista dei controlli, delle segnalazioni turistiche, della cura del patrimonio botanico; azione forte contro il fenomeno delle discariche abusive a cielo aperto; allaccio della corrente elettrica nelle tante contrade ancora scoperte. Insomma, tutto quello che dovrebbe essere normale e che appare, scandalosamente, utopico.

“Sciddicuni esiste e resiste per ricordare che non bisogna essere super eroi per portare avanti i propri ideali, per testimoniare che a volte il coraggio sta proprio nel condurre la propria vita quotidiana con coerenza e senza compromessi. Io resto qui, non andrò via. E quando ci renderemo conto che ci stanno togliendo tutto, anche la possibilità di vivere in pace nella propria terra, forse inizieremo a voler essere i reali protagonisti del nostro futuro”.

Parole pulite, quelle di Emanuele Feltri, che odorano di tradizione e di futuro. Parole che con quest’epoca sembrano avere poco a che spartire. Parole di un campagnolo di 30 anni, che il domani se lo immagina nel segno delle radici, ma anche dello sviluppo, del cambiamento, di un’etica nuova. Parole di chi rifiuta compromessi e scorciatoie, pensando alla prima persona plurale: il noi, prima del sé. Perché da solo, in quella valle, una piccola comunità lui l’ha costruita, piano piano. Quella dei ragazzi e le ragazze che hanno preso la sua lotta e la stanno cavalcando, spingendo, insegnando agli altri. Germinazioni lente, perseguendo l’idea di ‘pulizia’ e di ‘collaborazione’.

All’orizzonte c’è il modello di un’imprenditoria agricola sana, svincolata da rapporti di potere e dalle prepotenze del mercato, che non debba convivere con ricatti ed ecomafie, che si salvi dalla piaga dell’inquinamento, che punti sul biologico, ma anche su dinamiche differenti: vendita diretta, qualità dei prodotti, consorzi tra piccole aziende, recupero di una dimensione umana. La politica? Ha un ruolo prioritario. Con le molte terre abbandonate che andrebbero rilevate, preferibilmente facilitando l’acquisto da parte dei piccoli agricoltori; con i controlli da garantire sul territorio, mettendo a frutto quell’immenso bacino di precari (forestali in primis) foraggiati da mamma Regione; con il dovere di incoraggiare l’imprenditoria giovane, impegnata nel bio e nell’ecologico.

Cominciando col dare l’esempio, però: proteggere il territorio, averne cura, metterlo a frutto e non sfruttarlo, è forse la prima vera battaglia che la politica, in quanto arte del valore comune, degli spazi comuni, dei beni comuni, dovrebbe intestarsi con rigore.

E nell’attesa che qualcosa accada davvero, tra una promessa vacua, una campagna elettorale e un balletto di palazzo, il Coordinamento in Difesa della Valle del Simeto mette in fila progetti e obiettivi concreti. Sfruttare contrada Scidduicuni come quartier generale per operazioni culturali, ad esempio, utilizzando l’arte e la musica come faro acceso che porti l’attenzione su un problema. E poi ripristinare la Via del Grano, antica strada reggia, oggi del tutto dissestata, che da Paternò arriva fino a Catenanuova, attraversando le montagne.

Nel frattempo, Emanuele si gode il Premio “Ambiente e Legalità” di Legambiente, per la prima volta assegnato a un siciliano, in ragione di una “battaglia di civiltà”, che è “esempio concreto per tutti coloro che credono e lavorano per dare ai giovani siciliani un futuro di legalità e prosperità”. Un futuro nella propria terra, dove continuare a vivere, a lavorare, a respirare.

 


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