In occasione del Festival del giornalismo dinchiesta Ilaria Alpi, Sigfrido Ranucci presenta il nuovo libro Il Patto, scritto con Nicola Biondo. La trattativa tra Stato e mafia è ricostruita attraverso le testimonianze che Luigi Ilardo, pentito catanese ucciso nel 1996, consegnò a un colonnello dei carabinieri
Stato-mafia, un Patto lungo ventanni
Sigfrido Ranucci parte ancora da Catania. Nel suo nuovo libro, “Il Patto”, scritto insieme a Nicola Biondo, giornalista dell’Unità, ricostruisce la trattativa tra mafia e pezzi di istituzioni. Niente a che vedere con le recenti dichiarazioni di Massimo Ciancimino. Ranucci infatti ripercorre gli ultimi venti travagliati anni della nostra storia attraverso la testimonianza di Luigi Ilardo, pentito catanese del clan Santapaola.
Ilardo in realtà è più di un pentito. Roberto Morrione, direttore di Liberainformazione intervenuto alla presentazione de “Il Patto” al festival Ilaria Alpi in corso a Riccione, lo definisce «un anomalo servitore dello Stato». Già, perché Luigi Ilardo, cugino del boss Piddu Madonia, disgustato dalla stagione stragista dei corleonesi, dopo essere stato arrestato decide non solo di collaborare, ma propone anche di infiltrarsi dentro Cosa Nostra per svelarne ai carabinieri tutti i segreti e i meccanismi. Il suo referente è il colonnello Michele Riccio. Nei mesi successivi il rapporto tra i due diventa sempre più forte, cresce la fiducia reciproca. Secondo Morrione la bellezza e la tragicità del libro sta proprio nel «rapporto bellissimo, quasi shakespeariano dei due personaggi e nel loro spessore umano».
Sono molte le vicende oscure che Ilardo racconta, tra il ’94 e il 14 maggio del ’96 (giorno in cui viene ucciso a Catania), al colonnello Riccio e al giudice Gian Carlo Caselli, e che Ranucci e Biondo ripercorrono in maniera documentata e puntuale, attingendo a numerose carte processuali: dalla mancata perquisizione del covo di Riina, che dopo l’arresto del boss rimase per 19 giorni incustodito e non sorvegliato, al continuo rinvio dell’arresto di Provenzano, all’immancabile presenza di elementi dei servizi segreti attorno alle stragi del ’92-’93. Pezzi di un puzzle tenuti insieme da alcuni nomi ricorrenti: l’allora colonnello del Ros Mori e il vice Obinu, entrambi oggi sotto processo.
Ma come nasce questo patto scellerato? «Neanche ne voglio parlare, – risponde Ranucci – la chiave per rispondere non la offro certo io adesso, ma è stata scritta anni fa proprio negli atti del processo Mori-Obinu per la mancata perquisizione al covo di Riina. Lì si parla del conflitto tra il Ros e la Procura di Palermo allora diretta da Caselli. Si parla dell’ordine dato dal capo del Ros, il colonnello Subrani, e dal vice Mori, di cessare l’osservazione del covo. Un atto fuorilegge, perché quella decisione non spettava esclusivamente a loro».
Ma il Patto non è solo uno sguardo sul passato. Anzi. «È un libro – spiega il direttore di Liberainformazione – che permette di fotografare anche quello che sta succedendo ora. Come non pensare alle ultime vicende legate al pentito Spatuzza? Un testimone ritenuto attendibile da tre procure (Firenze, Palermo e Caltanissetta) e dalla superprocura di Piero Grasso, ma non abbastanza dalla commissione presieduta dal sottosegretario Mantovano, che gli ha negato la protezione della scorta».
Resta una domanda: è reversibile questo processo? Ranucci è chiaro: «La debolezza dello Stato in queste vicende è evidente e nasce dai rapporti continui che una parte della classe politica ha sempre avuto con Cosa Nostra. Quando non c’è stato questo contatto, c’è stata la guerra».