Spot Us, siamo tutti editori d’inchieste

Comprare una notizia che si vuole leggere. È l’idea che sta alla base di Spot Us.it, il sito di giornalismo partecipativo e crowdfunding nato alla fine di aprile, sul modello di Spot Us Usa. Perché far scegliere solo agli editori le storie da raccontare e gli argomenti di cui parlare? Spot Us vuole coinvolgere dal basso cittadini, associazioni e semplici reporter, creando una rete di sostegno reciproco, per costruire una nuova agenda informativa legata al territorio.
 
Giornalismo locale e giornalismo d’inchiesta: secondo Federico Bo, Antonio Badalamenti e Antonella Napolitano, fondatori della nuova piattaforma, è questo il mix vincente. Il meccanismo è semplice: chiunque, semplice cittadino o reporter, pubblica sul sito una proposta d’inchiesta chiedendo anche un budget necessario per realizzarla. Quindi si passa alla fase della ‘promessa’: gli utenti si impegnano a contribuire al finanziamento (donazione massima 50 euro). Una testata può finanziare il 50% del progetto per avere l’esclusiva sulla pubblicazione.
Quando le promesse avranno coperto l’intera spesa, gli utenti verranno ricontattati dalla redazione per mantenere l’impegno.

Si passa alle ultime due fasi, quelle più propriamente giornalistiche: la realizzazione dell’inchiesta con la supervisione di un redattore e, una volta raggiunto un livello qualitativo soddisfacente, la sua pubblicazione in Creative Commons.
 
In California, pur con qualche differenza rispetto al modello italiano, ha funzionato. Le inchieste realizzatesi concentrano sulle città di San Francisco e Los Angeles, ma il modello si sta estendendo anche ad altre zone del Paese. Riuscirà l’esportazione in Italia? Nel primo mese di vita del sito, le proposte d’inchiesta sono state quattro (vedi la mappa), tutte ancora in fase di finanziamento. David Cohn, giornalista freelance fondatore di Spot Us Usa non ha dubbi: “Spot Us.it finanzierà il giornalismo d’inchiesta in Italia”. Troppo ottimista? Ne abbiamo parlato con Federico Bo, uno dei fondatori.
 
Federico, come è nato il progetto Spot Us Italia?
«Io e Antonio Badalamenti abbiamo lavorato per circa un anno ad un progetto legato al giornalismo che poi non è andato a buon fine. Ma avevamo creato un patrimonio importante di conoscenza e contatti in questo mondo che non volevamo disperdere. Nelle nostre ricerche avevamo spesso fatto riferimento a Spot Us, quindi ci siamo detti “perché non portare in Italia questa nuova filosofia?”. Tramite la community Kublai, abbiamo coinvolto anche Antonella, e con lei abbiamo contattato il fondatore di Spot Us America, David Cohn, chiedendogli il permesso di utilizzare il brand».
        
Quasi contemporaneamente a Spot Us sono nati in Italia altri due progetti molto simili, DIG_IT e YouCapital. Secondo te qual è il motivo di questo improvviso interesse italiano per il crowdfunding?
«Cito Victor Hugo, che a mia volta ho letto sul libro di Zambardino e Russo, Eretici Digitali: nessuna idea è più forte di quella per cui il tempo è venuto. In Italia il tempo è maturo. Questi esperimenti sono nati negli USA, ma il nostro è il primo paese non anglofono dove arrivano. Evidentemente c’è bisogno di un’agenda diversa rispetto a quella che viene dettata dai media mainstream. Spot Us è un modo per fare emergere quella realtà che viene taciuta, oppure edulcorata».
                 
Quali caratteristiche, secondo te, deve avere un’inchiesta per essere valida e appetibile in Spot Us?
«Per prima cosa tutto deve essere trasparente. L’inchiesta deve essere costruita secondo una precisa analisi di fatti, dati e fonti. I reporter, durante la fase di realizzazione, potranno raccontare attraverso un blog dentro Spot Us come sta procedendo l’inchiesta, oltre che richiedere aiuto e consigli alla community. Le inchieste obiettive in realtà non esistono: per quanto un reporter cerchi di essere il più imparziale possibile c’è sempre una certa dose di soggettività. Ma questo perde di importanza se tutto è trasparente.
Un esempio: se il comitato no-tav finanzia un’inchiesta su questo tema, è chiaro che prevarrà un solo aspetto del problema. Lo accettiamo, se il punto di vista dal quale si parte sarà trasparente. Chi non è d’accordo sarà libero di finanziare una contro-inchiesta».
        
A un mese o poco più dalla nascita di Spot Us Italia, quale è stata la risposta del pubblico?
«Abbiamo avuto già qualche proposta di inchiesta, ma non è stata ancora finanziata. Ad esempio una ragazza aveva proposto una videoinchiesta/reportage sul congresso di Barcellona che si tiene proprio in questi giorni sulle identità di genere. Oppure la proposta di un ragazzo de L’Aquila di indagare sulla prevenzione al terremoto, su cosa è mancato. Essendo partiti da zero e non avendo finanziamenti, a differenza del modello americano appoggiato da una fondazione, il problema principale è quello di farsi conoscere, soprattutto dai cittadini, visto che tra i reporter e i freelance le voci corrono rapidamente. In questo momento abbiamo già una cinquantina di reporter iscritti alla piattaforma, a fronte di una settantina di semplici cittadini, mentre questi ultimi dovrebbero essere molto di più».
        
Tutti le inchieste citate sono legate a gruppi con una forte identità, che può essere data dal territorio, o da un particolare interesse. Pensi sia un fattore chiave per il successo delle inchieste di Spot Us?
«Sì, è assolutamente importante: noi non ci rivolgiamo a una nicchia di utenti in particolare, ma a molte nicchie, con temi che riguardano la vita quotidiana delle persone di un determinato territorio o di un preciso ambiente. Si deve cambiare la mentalità, capire che se si è davvero interessati a un problema o a una tematica, non basta più un semplice “click”, o un “mi piace”, ma devi essere disposto a impegnarti sul serio, a versare anche pochi euro, in modo da permettere ai reporter di affrontare quel tema senza rimetterci di tasca propria».
        
Le inchieste vengono realizzate in Creative Commons e messe a disposizione sul sito. È previsto però, nel caso in cui una testata finanzi l’inchiesta al 50%, che questa abbia la priorità sulla pubblicazione. In seguito l’inchiesta realizzata continuerà a essere in Creative Commons liberamente condivisibile?
«Sì, quando una testata finanzia un’inchiesta, ha semplicemente un diritto di pubblicazione in anteprima. Quindi l’articolo o il video appariranno sulla testata che li finanzia, dopodiché torneranno sul sito della piattaforma. L’ideale sarebbe che qualche inchiesta realizzata da Spot Us venga poi ripresa da altri organi di stampa. Negli Usa è già successo un paio di volte con il New York Times».
                          
Uno dei dubbi però viene proprio sulla trasparenza: non potrebbe capitare che qualcuno rubi le idee di inchiesta pubblicate sul sito?
«Ci abbiamo pensato, ma è il problema che hanno tutte le community che sperimentano questo tipo di soluzioni aperte. C’è da fare però un rapporto tra costo e benefici: vale la pena correre il rischio che qualcuno ti rubi la tua idea, se in cambio hai la possibilità di avvalerti della collaborazione e dei consigli di migliaia di utenti?».


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Far finanziare il giornalismo d’inchiesta dal basso. È l’obiettivo di Spotus.it, nato ad aprile 2010 sul modello americano. I reporter propongono, i cittadini finanziano. Negli Usa ha funzionato, diventerà un modello di successo anche in Italia? Federico Bo, uno dei fondatori non ha dubbi: «Nessuna idea è più forte di quella il cui tempo è venuto»

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