Due mesi fa moriva un uomo che in città conoscevano tutti: un contadino di 85 anni che ogni giorno percorreva chilometri da Catania a Nicolosi, insieme alla sua fedele compagna: una bicicletta. Una vita 'straordinaria' di lavoro e solitudine, nel ricordo di un grande amore finito ancora prima di iniziare. Ora un documentario lo ricorda. Step1 intervista lautore
Spingendo la vita sotto il vulcano
Chiunque abbia percorso qualche volta le strade che da Catania portano a Nicolosi l’avrà di certo notato. Una bicicletta malmessa, carica di casse e buste, e un uomo che – stancamente ma con ostinazione – saliva lungo il ciglio della strada. Quell’uomo era Orazio Di Grazia, ottantacinquenne catanese che ogni giorno raggiungeva il paesino inerpicato sull’Etna con la sua fidata bicicletta, trasportando chili su chili di frutta e ortaggi. Alessandro Marinaro è un giovane videomaker che ha girato “La bici sotto il vulcano”, un documentario sulla vita quotidiana di questo misterioso personaggio.
«Ho sempre desiderato raccontare la storia di quest’uomo, sin da quand’ero bambino, quando lo vedevo spingere faticosamente la sua bici per le strade dei paesi etnei» racconta Alessandro nelle sue note. «Allora non riuscivo a capire le motivazioni che lo spingevano a comportarsi così. Sapevo dentro di me che non dovevo seguire la strada delle stupide illazioni, delle ipotesi pronunciate da chi crede di avere la verità in bocca, ma dovevo entrare nel personaggio, avvicinarlo, accostarmi a lui ed invitarlo a raccontarsi. Solo in quel modo sarei riuscito a giungere a possibili soluzioni e a scoprire quanto sia profonda la storia di questo vecchietto ingobbito ed esile, dalla volontà d’acciaio».
La storia del signor Di Grazia somiglia alla trama di un romanzo, di quelli che lasciano un sapore agrodolce e non possono mai più essere dimenticati. Credendolo morto in Iugoslavia, durante la guerra, la fidanzata era stata costretta a sposare un altro uomo. Orazio tornò sano e salvo in Sicilia, ma era troppo tardi. Per la disperazione, la giovane si lasciò morire e lui decise che il suo cuore non avrebbe più avuto una sostituta. Il signor Orazio è morto il 4 novembre scorso; fino a qualche giorno prima aveva scalato quella strada che un paio di volte l’aveva visto a terra, arrotato dalle macchine in corsa.
Il regista lo descrive come «un personaggio anacronistico, fuori dal tempo, per scelta e per costrizione, che racconta pezzi incredibili di vita attraverso il suo volto rugoso, le sue mani callose, la sua voce mite e saggia, il suo cuore tenero e infaticabile». Dal documentario “La bici sotto il vulcano”, che a breve (la data è ancora da definire) verrà proiettato anche al Monastero dei Benedettini, deriva il ritratto di un uomo assolutamente straordinario, nel senso letterale del termine, ovvero fuori dal comune, apparentemente alienato dalla realtà, in concreto perfettamente in grado di esprimere il suo amore per Dio, da un lato, e il suo disprezzo per la modernità, dall’altro. Un viso antico,un’espressione d’altri tempi, di quelli che parlano senza parlare. Per quanti non hanno mai incrociato la propria strada con Orazio, la descrizione migliore è quella dello stesso Marinaro: «il suo viso è l’immagine di una meravigliosa Sicilia contadina che si dissolve pian piano; la sua voce tutto ciò che di indelebile si potrà rievocare».
A te quel viso cosa ha detto?
«Proprio la sua fisicità ha detto tutto. Orazio spingeva la sua bicicletta curvandosi talmente che la gente non lo vedeva neanche in faccia. Per me tutto è iniziato proprio dal suo viso, da quelle rughe che erano ciascuna una traccia della sua vita e che mi hanno aperto un nuovo mondo».
Molti non hanno esitato ad etichettarlo come pazzo o disturbato. Tu, invece, come lo definiresti?
«Definire Orazio equivarrebbe a limitarlo, è una scoperta continua. Per il resto io mi limito a mostrare, affinché dal mio documentario possano nascere nuovi infiniti sguardi».
Com’è stato possibile che un uomo sia rimasto così fedele a se stesso,come se il mondo intorno a lui non fosse cambiato?
«Orazio è un anacronismo, un anticonformista spirituale totalmente libero dalla società e disinteressato ai suoi parametri di giudizio, ma poi prigioniero assoluto di se stesso e di Dio. Spingere la bicicletta, in modo così ossessivo, era una sorta di espiazione, quasi l’unico modo per soffrire bene».
In cosa si riconosceva maggiormente la sicilianità di Orazio Di Grazia?
«Senza dubbio nella sua sensibilità da contadino, nel suo amore viscerale, quasi paterno nei confronti dei prodotti del suo lavoro, le patate in particolar modo».
Credi che resterà una traccia concreta di quest’uomo nella memoria catanese?
«Beh, il mio terrore era proprio quello che cadesse nel dimenticatoio; impedirlo è lo scopo del mio cortometraggio. E’ mia intenzione, tra l’altro, progettarne un seguito».
Chissà che Orazio, spingendo la sua bici, non volesse significare altro che spingere avanti la vita…