Sorpresa, è stato il Festival delle canzoni

Il lavoro sporco lo lascio ad altri. A quelli che era tutto preparato. Che è uno scandalo aver speso così tanti soldi. Che il tizio ha portato la canzone furba. Che se non sei ammanicato lì non entrerai mai. Che basta col Grande Vecchio e le sue propaggini. Che, insomma, la politica è sangue e merda.

Naturalmente è vero. O lo è in gran parte. E quando ti prende quel sopore arrendevole, che quasi ti tranquillizza, non sai se è rassegnazione, impotenza o paralisi. Conferma di appartenere al gregge, logica del numero, che quel mondo, e non parlo certo dello spettacolo, tu non lo vivrai mai da protagonista, e subisci la loro potenza ottusa, il “Festivàl” con l’accento sulla A, la fissità ottuagenaria che ti doppierà, e tu sparirai, ma loro no.

Già. Quei brani ce li avranno pure imposti. Ma se Sanremo è un santo da operetta, o da opera buffa, se non è una cosa seria, sotto sotto – Pirandello docet – il messaggio è serissimo. E, ogni tanto, perfino comprensibile. Così spuntano leggeri miracoli di parole, come bolle dorate su uno statico acquitrino. Compaiono, deflagrano poi svaporano, tornando alle loro sfere. Lontanissimi da lì, alieni di passaggio. E tuttavia, capaci di confortare.

Nella fattispecie. Far salire sul podio un Al Bano e un Mazzocchetti rientra perfettamente nell’habitus sanremese. Talmente normale, prevedibile, lapalissiano che non scandalizza nemmeno più. E’ la ratifica dell’impotenza e dell’estraneità. Ma, per una volta, a carte scoperte. In un certo senso è scontato anche il primo posto di Simone Cristicchi (foto sotto), che già il Festival (o Festivàl, a piacere) doveva vincerlo lo scorso anno. E, come da copione, il vincitore morale dell’edizione precedente… ecc. ecc. O forse – m’illudo? – era una richiesta di scuse: sì vabbene abbiamo promosso ‘ste due mummie (Alby & Pier, n.d.A.), ma vi lasciamo Cristicchi. Perché alla fine, diamine, la canzonetta c’era. O la canzone. O la canzonona. O, sì ecco, la Signora Canzone. Perché trattavasi di quello. Di un brano coi fiocchi. Sulla malattia mentale, non so se mi spiego.

E per parlare in modo credibile di una simile roba, matto ci devi essere, e Simone, con quell’aria stralunata da Archimede Pitagorico, ha indubbiamente il physique du role. Ma non basta. “Mi chiamo Antonio e sono matto”: caschiamo sempre sulle parole, e il matto non ricorre ad eufemismi, quelli li usiamo noi, apparentemente sani, per circoscrivere e isolare il mostro. Senza dubbio Cristicchi voleva andare a parare lì, dal mostro. E quando l’ho visto salire sulla seggiola, nel silenzio rarefatto, con le braccia spalancate per l’ultimo, sanzionatorio volo muto, un brivido mi ha percorso la schiena. In lui ho rivisto non Antonio, ma Andrea, incontrato tanti anni fa in un reparto psichiatrico. Un giovanotto allampanato e occhialuto e anch’egli perso in un sorriso senza scopo, che la scienza aveva dichiarato guarito, e che due giorni dopo il ritorno a casa, si gettò nello stesso gorgo muto. Tanto diverso da Icaro, che non era matto, ma scemo, perciò temerario e impertinente. Il volo dei Simone-Antonio-Andrea è inerme, evocativo, accusatore, solitario, umanissimo, così simile al nostro quotidiano, al senso di paralisi di cui parlavo all’inizio, da farci capire che i mostri siamo noi, o tali ci ha resi il torrente carsico dei soprusi, delle ingiustizie, del chiasso informe contrabbandati per normalità. Antonio fratello nostro, in fondo, meritava soltanto un abbraccio.

Accanto a Cristicchi mi sarebbe piaciuto vedere Paolo Rossi, di cui mi ha commosso l’omaggio al grande Rino Gaetano, o un Silvestri con la sua ironica Paranza, o un Fabio Concato: quest’ultimo, in una prosa elegiaca, ha raccontato la vicenda del cinquantenne licenziato da una società che propaganda il giovanilismo a tutti i costi, ma a quell’età ti considera un rottame. Mi sarebbe piaciuta Tosca, una vera attrice in musica, di quelle d’un tempo come le sue sue atmosfere teneramente rétro, alla Gabriella Ferri. Personalmente tifavo per Amalia Gré, che non sarà un portento di simpatia ma ha presentato un brano raffinato senza essere snob, uno swing al ralenti (opportunamente affiancato, la sera dei duetti, dal bravissimo Mario Biondi). Era troppo, lo so. Ma il troppo, a Sanremo, assume un significato particolare. Indica possibilità di scelta. E vuol dire che qualcosa da salvare esiste. La musica, probabilmente.

E’ stato giusto premiare la bellezza arruffata del giovane Fabrizio Moro (foto sotto). Sarà che viene da San Basilio, cui sono legata per ragioni affettive, sarà che mi ha divertito quella sua puntualizzazione: “So scrivere anche cazzate”, ma vivaddio, Fabrizio è i miei studenti. Quelli che prof quest’anno voto per la prima volta e vorrei andare però è tutto un casino mi aiuti. E poco importa che creda di essere un dritto, il suo scarabocchio in musica ha qualcosa di primitivo, e avvince. Non scomodiamo l’impegno, per carità. E’, forse, solo una lallazione. Ma quando i nostri ragazzi pretendono di re-imparare a parlare, a pensare (Pensa!) possiamo voltar loro le spalle?

Chiamatele canzonette, se volete.


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