La malattia del secondo tempo colpisce anche lultimo film di Luca Lucini. Un inizio interessante che si perde nei meandri di una sceneggiatura traballante ed approssimativa
Solo un padre lento
“Solo un padre” presenta gli ingredienti più frequenti del cinema italiano dell’ultimo decennio: ambientazione alto-borghese, contesto metropolitano, approfondimento dello statuto, di fatto mobile, della famiglia nella contemporaneità.
La storia è quella di un padre rimasto vedovo – la moglie è morta di parto – alle prese con una bambina da accudire e allevare. Il regista Luca Lucini nel cercare un equilibrio tra dramma e commedia vira verso i toni melodrammatici; non mancano gli spunti dissacranti, sono però solo una decorazione estemporanea al racconto di trentenni, quarantenni affacciatisi, forse impreparati, a responsabilità familiari.
Luca Argentero nei panni del protagonista è bravo: affronta bene il ruolo del padre apprensivo e lacerato dal senso di colpa – quello di essere sopravvissuto alla moglie – e dalla paura dell’inadeguatezza. La macchina da presa indulge talvolta troppo insistentemente sui suoi primi piani; ma forse è una consuetudine della fotografia televisiva, che conquista così anche il cinema, quella di voler imporre l’attore feticcio più che l’attore bravo. Quasi nell’illusione che la bellezza possa compensare limiti eventuali nella recitazione.
Anche la protagonista femminile Camille (Diane Fleri) è disciplinata e credibile nella parte di –naturalmente! – una ricercatrice universitaria specializzata in cervello e affini, in particolare in una cosa complicata come la localizzazione delle emozioni sui due emisferi cerebrali. Gli abbinamenti cromatici nei suoi vestiti sono leggermente improbabili e pretenziosi, ma vabbé!
Quello che in “Solo un padre” non quadra, come spesso accade nei film italiani più recenti, è la sceneggiatura: i dialoghi sono infatti un po’ scadenti. Qualche settimana fa, acutamente Marco Lodoli su “Diario” ha dato una diagnosi precisa al problema dei nostri film: lui la chiama “secondo tempo”. Lodoli vede cioè nello sviluppo – anche in quei film più acclamati e solidi sul piano narrativo, tipo “Le conseguenze dell’amore” – sempre l’irrompere di una certa stanchezza, l’allentamento della tensione nel racconto. Il che produce film inizialmente pirotecnici che si abbandonano a uno sviluppo macchinoso e letargico. Gli ingranaggi dialettici e le trovate visuali che dovrebbero coinvolgere il pubblico, man mano che la trama si sviluppa, si fanno prevedibili e ripetitivi.
Se a questi limiti di soggetto si somma la mancanza di talento in molti sceneggiatori italiani, allora la faccenda si complica e la piattezza di molte pellicole diviene quasi un marchio di fabbrica normale.
“Solo un padre” ha questi due difetti non da poco: è lento abbastanza da rivelare un intreccio approssimativo; ed è traballante nelle voci dei suoi personaggi da risultare soporifero. Per avvincere e convincere chi guarda bisogna riempire i film di fatti, metterci più roba, non continuare a fare una psicologia d’accatto per e delle masse e infilarci la solita sociologia superficiale, sempre identica in tante produzioni.