Shah mat. L’ultima partita di Capablanca

“Si scrive anche per dimenticare, per rendere inoffensivo il dolore…”. Così, in Cere Perse, Gesualdo Bufalino. A dieci anni dalla sua scomparsa abbiamo una nuova possibilità, e l’immutata voglia, di ricordarlo leggendo Shah Mat. L’ultima partita di Capablanca, il romanzo al quale stava lavorando prima che il patatràc lo sorprendesse.
Il professore Nunzio Zago, direttore scientifico della Fondazione Bufalino, ha curato questo non ultimato testo, ultimo testimone e ulteriore testamento, dello scrittore comisano per espressa volontà della Signora Giovanna Leggio Bufalino. I 29 fogli, oggi abbracciati da una copertina raffigurante Echec et mat di Magritte a dar corpo e forma ai primi due capitoli di questo incompiuto, sono stati presentati il 24 Giugno a Comiso nel chiostro della Fondazione Bufalino. Il sindaco della città natale dello scrittore, Giuseppe Digiacomo, lo stesso Zago e Mario Andreose, direttore editoriale della Bompiani, si sono avvicendati nel ricordo dell’autore e nella presentazione di questo romanzo in edizione sibi et paucis, una di quelle tanto care al Nostro. Al chioccolare amico della fontana del patio, abbiamo appreso la genesi di un legame editoriale e di un’amicizia, quella fra Bufalino e Andreose, e le modalità di questo parto letterario che ha visto la luce, dopo il lutto, grazie alle arti maieutiche del professore Zago. Che, fra l’altro, ha dotato il nascituro Shah Mat del corredo d’una sapida e puntuale nota filologica e postfazione, coadiuvato dalla professoressa Fabiani, docente di Lingua e Letteratura Spagnola della Facoltà di Lingue a Ragusa. Una canicola allucinatoria ci ha piacevolmente ingannati, forse, in quell’attimo di felice imbarazzo che abbiamo colto sul volto della professoressa Fabiani ringraziata dal professore Zago sul palco. Non ce ne voglia, ma ci piace pensare che sia così. Dai due capitoli iniziali, godibilissimi seppur soli, a mo’ di milleeduesima novella, sono state lette pubblicamente alcune pagine, per cavarne, da quei brani e lacerti, un po’ di sugo e scienza. Tra invenzione e realtà, l’ultima giornata di vita del grande campione cubano di scacchi, Josè Raoul Capablanca ci viene raccontata in terza persona. Ma è facile riconoscere la figura di Bufalino giocare, serissimamente, a rivelarsi o a celarsi in Capablanca. Non solo nella comune passione – oh La Palisse!- vissuta nella sua ambivalenza, per questo gioco d’origine e di fine violentissimi (il Capablanca reale riconosceva agli scacchi lo stemma e lo stigma di quel genere d’arte cui appartengono pittura e scultura), ma anche nel salvifico distacco che li distingue da un meno fortunato Paul Morphy. A voler tacere, e quindi non facendolo, del loro carattere umbratile e malinconico a volte, del loro rifugiarsi nella memoria per sfuggire o sconfiggere le offese del tempo.
E la duplicità, speculare, si dimezza definitivamente nella visione della vita come metaforica partita di scacchi, truccata, contro se stessi e l’insistente Dio inesistente. Rimane, per Bufalino, e a Capablanca, la possibilità di prolungare una cercata agonia medicandosi e coccolandosi, fra un furore ludico e amoroso. Lenendo le ferite col balsamo della memoria e del racconto.
In questi due capitoli, che prefigurano- quanto poi? arditissimo compito, con Bufalino, azzardare previsioni dalle prime pagine- un romanzo forse più tradizionale dei precedenti, veniamo trasportati a New York, il 7 marzo 1942, vigilia della morte, appunto, di Josè Raul Capablanca, geniale e singolare campione di scacchi. Ormai minato dalla malattia (da sempre costante di Bufalino), consapevole forse di essere giunto al tempo dei consuntivi, tanto da rivolgersi ad una memoria che s’impenna a ritroso, viene abbordato da una giovane donna nel buio di un cinema dove proiettavano Weekend in Avana, emporio di ricordi in cui far scorte di cartoline dal tempo che fu. Nella sua stanza d’albergo si consuma il loro incontro ma non il rapporto cercato proposto offerto da Claudette. E’ un incontro fatto di parole ricordi e memoria, forse una fanta-memoria, perché tale è, la memoria, fantasiosa e fantastica. Capablanca racconta e si racconta ad un’ascoltatrice addormentata, così come lui aveva sempre sognato: un confessore che non desse assoluzioni o condanne. Ed il racconto acclara, ancora una volta, il valore e ruolo della letteratura. Ma la risvegliata curiosità di una Claudette ridestata non avrà sazio e sfogo, interrotta e bloccata sull’incipit di una storia d’amore e di morte: qualcuno bussa alla porta.

Chissà chi era.


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