Cosa è vivo e cosa è morto delle idee del '68? Lo scrittore, poeta e regista americano racconta la sua esperienza alla Columbia University: La nostra piccola rivoluzione era poco più di un gesto simbolico. Eppure i gesti simbolici non sono gesti vuoti - Avviso agli studenti di Raoul Vaneigem- Berlino Ovest, ricordi di quarant'anni fa di Peter Schneider
Sessantotto, il mio anno di follia
Correva l’anno della follia, l’Anno con la maiuscola. Quello del fuoco e della morte. Avevo compiuto ventun anni da poco ed ero pazzo come tutti gli altri. Mezzo milione di soldati americani combattevano in Vietnam. Martin Luther King era stato appena assassinato. In tutta l’America le città bruciavano, e il mondo sembrava avviato verso un tracollo apocalittico. Mi colpiva l’idea che la nostra follia fosse una risposta perfettamente sensata a quanto era toccato in sorte a me e ai ragazzi della mia età in quel 1968. Subito dopo la laurea mi aspettava la chiamata alle armi per una guerra che disprezzavo dal profondo del mio essere. Ero ben deciso a rifiutare di combatterla, quella guerra, e avevo solo due alternative per il futuro: la galera o l’esilio.
Non ero un violento. Se ripenso ora a quegli anni mi vedo come un ragazzo tranquillo, sempre chino sui libri, immerso nei corsi di letteratura e filosofia della Columbia University e nello sforzo di capire come si fa a diventare uno scrittore. Avevo partecipato a qualche marcia contro la guerra, ma non militavo nelle organizzazioni politiche del campus; e pur essendo un simpatizzante dell’ Sds (uno dei molti gruppi studenteschi, radicale ma tutt’ altro che estremista) non andavo alle riunioni, né avevo mai distribuito volantini o altro materiale propagandistico. Volevo solo leggere i miei libri, scrivere poesie e bere con gli amici al West End Bar.
Ci andai perché ero fuori di testa; il veleno del Vietnam aveva invaso i miei polmoni e mi aveva fatto impazzire. E gli studenti che a centinaia si erano riuniti quel pomeriggio intorno alla meridiana, al centro del campus, in realtà non erano lì per protestare contro il progetto della palestra, ma piuttosto per dare sfogo alla loro follia scagliandosi contro un obiettivo qualunque. E poiché eravamo tutti studenti della Columbia, non trovammo di meglio che lanciare mattoni contro l’ università – peraltro impegnata in una serie di lucrosi progetti di ricerca per committenti dell’ industria bellica, e quindi coinvolta nello sforzo militare in Vietnam. I discorsi infuocati si susseguivano, accolti con boati di approvazione dalla folla degli studenti imbufaliti. A un certo punto qualcuno propose un assalto al cantiere, per smantellare la recinzione che impediva l’ accesso ai non addetti. Parve a tutti un’ idea eccellente, e una marea di studenti urlanti e fuori di testa lasciò il campus della Columbia per dirigersi a passo di carica verso il Morningside Park.
Con mia grande sorpresa mi ritrovai in mezzo a loro. Cos’era successo al giovane ammodo, deciso a passare il resto della sua vita solo in una stanza a scrivere libri? Mi diedi da fare nell’ opera di smantellamento della recinzione, strappando il reticolato e menando colpi insieme a decine di compagni; e devo confessare di aver ricavato una gran soddisfazione da quell’ attività distruttiva e folle. Dopo l’ assalto alla recinzione del parco la nostra furia si rivolse contro gli edifici del campus, che occupammo per una settimana intera. Ero finito nell’ aula di matematica, dove rimasi per tutta la durata del sit-in. Frattanto gli studenti della Columbia erano in sciopero.
Mentre noi tenevamo tranquillamente le nostre riunioni all’interno, il campus era sconvolto dal chiasso di bellicosi scontri verbali tra i sostenitori dello sciopero e i contrari, che a volte venivano alle mani abbandonando ogni ritegno. La sera del 30 aprile la direzione dell’università decise che era venuto il momento di farla finita e chiamò la polizia. Seguirono tumulti sanguinosi. Fui arrestato con altri settecento studenti e trascinato per i capelli da un poliziotto verso il furgone della polizia, mentre un altro mi pestava la mano con lo stivale. Ma lungi dall’ essere pentito, ero orgoglioso di aver dato il mio piccolo contributo alla causa.
Pazzo e orgoglioso. Cos’avevamo ottenuto? Non molto, a dire il vero. Di fatto, il progetto della palestra fu scartato. Il vero problema però era il Vietnam. Ma la guerra continuò per altri sette orribili anni. Non si cambia la politica di un governo attaccando un’ istituzione privata. Nel maggio di quell’Anno con la maiuscola gli studenti francesi si ribellarono in un confronto diretto col governo in carica, dato che le loro università erano pubbliche, controllate dal Ministero dell’Educazione. E in Francia quella rivolta diede il via a una serie di cambiamenti. Ma noi della Columbia University non avevamo alcun potere. La nostra piccola rivoluzione era poco più di un gesto simbolico. Eppure, i gesti simbolici non sono gesti vuoti. E dati i tempi, avevamo fatto quello che potevamo.
Esito a fare un paragone col presente. Perciò non concluderò questa breve reminescenza con la parola «Iraq». Oggi ho 61 anni, ma la penso più o meno come allora, in quell’ anno di fuoco e di sangue. E stando qui, seduto in una stanza con una penna in mano, mi rendo conto di essere tuttora pazzo – forse più pazzo che mai.
© New York Times Syndicate – PAUL AUSTER. Traduzione di Elisabetta Horvat su Repubblica del 25 aprile 2008.