Si erano aggiudicati l'appalto da più di un milione di euro per migliorare l'organizzazione interna del tribunale e della corte d'appello di Catania e ne avevano chiesto la riscossione alla Regione Sicilia, che erogava i finanziamenti, a fronte del lavoro svolto. Ma gli stessi uffici avevano più volte denunciato con lettere e note l'esistenza di prestazioni insignificanti. La guardia di Finanza ha quindi proceduto al sequestro di una somma ritenuta equivalente a quella intascata con la truffa per cui sono indagate tre persone: Francesco Cavallaro e Filippa Colombino dell'Iraps e la dipendente regionale Concetta Cimino
Sequestro all’ente di formazione Iraps La truffa dei corsi agli uffici giudiziari etnei
«Noi non abbiamo gli occhi per piangere, per cui è importante non perdere un milione in fuffa». O meglio in truffa. E per di più proprio in casa dei controllori. E’ il commento informale del procuratore capo etneo Giovanni Salvi, che così ha introdotto il sequestro preventivo da 431mila euro all’ente di formazione Iraps, accusato di truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche da parte della Regione Sicilia nel merito di un appalto da svolgere al tribunale e alla Corte d’appello di Catania.
L’ente, già coinvolto nell’operazione Pandora che aveva scoperto una serie di illeciti proprio nell’ambito della formazione regionale, avrebbe dovuto occuparsi di «analizzare il funzionamento degli uffici e presentare delle proposte operative per risolvere eventuali problemi», spiega Salvi. Come ad esempio snellire il fronte office, e cioè l’interazione con gli utenti, cittadini o avvocati. Solo dopo sarebbe arrivata la vera fase di formazione. Il bando vinto dall’Iraps – e sulla cui aggiudicazione è in corso un’indagine parallela – contava di accedere a un finanziamento da 1.230.660 euro del Fondo sociale europeo, erogato dalla Regione siciliana, per rendere più moderna la struttura organizzativa di tre sedi giudiziarie siciliane: la procura di Palermo, «dove però non sono stati riscontrati problemi», il tribunale e la Corte d’appello etnei.
E’ il 31 ottobre del 2010 quando l’Iraps chiede alla Regione di ricevere ulteriori somme a titolo di compenso per il lavoro svolto fino a quel momento. Denaro che si sarebbe andato ad aggiungere all’anticipazione già percepita dall’ente. Non solo. L’Irsap chiede anche di procede al finanziamento di un ulteriore quinto del prezzo dell’appalto, «un incremento per aver svolto prestazioni superiori a quelle previste», spiega Roberto Manna, comandante provinciale della Guardia di Finanza etnea. Peccato che, come denunciavano in più lettere gli stessi uffici giudiziari coinvolti, di prestazioni da parte dell’Iraps non si fosse vista neanche l’ombra. O quasi.
«Il tribunale e la corte d’appello hanno mandato diverse segnalazioni prima alla regione, poi al ministero e infine alla procura – racconta il procuratore capo – dove venivano segnalate prestazioni insignificanti». Non c’era insomma, come accertato dalle fiamme gialle, «corrispondenza tra quanto era stato attestato alla Regione come realizzato e ciò che invece era previsto contrattualmente». A partire dalla mancanza, segnalavano dagli uffici, di una persona fisica con cui comunicare e che invece avrebbe dovuto analizzare il loro lavoro. Per realizzare la truffa, l’ente avrebbe presentato un resoconto di costi mai sostenuti e una «documentazione fittizia, ma per importi minimi», aggiunge Manna.
A vigilare sull’effettivo svolgimento del lavoro appaltato all’Iraps e sul rispetto delle scadenze sarebbe dovuta essere Concetta Cimino, responsabile unico del procedimento designata dalla Regione Sicilia, oggi indagata insieme a Francesco Cavallaro, direttore amministrativo dell’Iraps già in carcere a seguito dell’operazione Pandora, e Filippa Colombino, legale rappresentante dell’ente coinvolta nella stessa indagine dello scorso ottobre. Agli ultimi due sono stati sequestrati denaro, beni mobili e immobili per un totale di 431mila euro, somma che la procura di Catania ritiene equivalente a quella intascata con la truffa. «Purtroppo la suddivisione dei lavori non era ben chiarita nel contratto – spiega Salvi – Ma noi abbiamo valutato la percentuale di lavoro svolto a Palermo; le operazione fatte a Catania, magari male ma fatte, e quello che resta è la parte sequestrata».