Sei personaggi in cerca di Dylan

«Siccome Dickens e Dostojevskij e Woody Guthrie hanno già raccontato storie molto meglio di quanto io possa fare, ho deciso di limitarmi alle fantasie della mia mente»

Io non sono qui: titolo quasi buono per un gran film, biografia su grande schermo di Robert Zimmermann, in arte Bob Dylan, da Duluth, Minnesota. Se siete dylanian* e/o dylaniat* potete tranquillamente evitare di leggere il resto dell’articolo, infilatevi le scarpe e recatevi nel più vicino cinema dove il film è in programmazione.

Se non lo siete, provo a darvi qualche motivo per fare altrettanto.

Fare un buon film biografia su Dylan, approvato dallo stesso, era impresa quasi disperata, il regista Todd Haynes vi è riuscito.

Innanzitutto, se ricordate altri film dedicati a pietre miliari della musica, lasciateli tranquillamente da parte.

Qui non c’è nulla come la pur splendidamente resa cronaca che guidava “Ray” (dedicato a Ray Charles), il regista si affida ad un valido surrealismo per fornirci l’”anima” di Dylan uomo, ben prima di quella dell’artista, e lo fa senza cadere nelle personali retoriche con cui Oliver Stone ha infarcito il suo “The Doors” o, peggio ancora, Olivier Dahan il suo “La vie en rose”, dedicato a Edith Piaf (interpretata magistralmente da Marionne Cotillard), dove dei voli retorico/pindarici partoriti dalla mente del regista avremmo fatto più che volentieri a meno.

Tornando ai 135 minuti che compongono “Io non sono qui”, l’essenza di Dylan viene resa attraverso il continuo alternarsi delle storie di sei personaggi (ognuno dei quali rappresenta un periodo della vita di Bob), un continuo susseguirsi guidato dall’istinto e non dalla logica (cosa più che giusta, considerato il soggetto) che raggiunge vette che la seconda mai avrebbe potuto neanche sfiorare.

Viene resa piena dignità alla perenne ricerca dylaniana di non essere trasformato in icona ad uso e consumo, di non essere oggetto per giornalisti in vena di scoop, in breve a continuare ad essere se stesso e non ciò che gli altri si aspettano lui sia (“Tu vorresti che io ti dica quello che tu vuoi che io ti dica” – frase del film che ben rappresenta ciò).

Ben viene reso il senso di solitudine che nella realtà accompagna l’artista, la sua capacità di stenderti con una frase, giustizia vien fatta riguardo la reale importanza di alcuni rapporti d’amore:

in merito a ciò ho apprezzato molto (sapendone un po’ di Dylan) il non poco spazio dato al rapporto con la moglie Sara (Charlotte Gainsbourg), a fronte dell’esiguità (giustamente n.d.r.) di quello dato al rapporto con Joan Baez (di cui sono certo avremmo sentito parlare molto ma molto meno, senza la sua connessione al menestrello di Duluth).

Il surrealismo raggiunge l’apice nella scena in cui un Richard Gere interpretante Billy the Kid (una delle sei incarnazioni dylaniane) si trova nel vecchio west, qualcuno cita Chaplin e una giraffa appare al bordo dello schermo… Dylan come Billy the Kid, Billy the Kid come Dylan, sempre in cerca di sfuggire al Pat Garrett (sceriffo dall’onestà opinabile) di turno… non è caso che a tutt’oggi l’artista, più vicino ai settant’anni che ai sessanta, sia preda d’un continuo tour che da più lustri lo porta a calcare il palco, forse l’unico luogo dove si sente a proprio agio.

Ed è ben surreale che a inizio film a impersonare Bob ci sia un ragazzino afroamericano di nome Woody Guthrie e nel punto focale, musicalmente parlando, del percorso Dylan venga interpretato da un‘eccezionale Cate Blanchett.

Se siete dylanian* e/o dylanian* ancora alla lettura di quest’articolo, posso tranquillamente affermare che troverete mille rimandi e richiami alla vita e carriera dell’artista amato. Se non lo siete e vi state chiedendo se vi sto parlando di un film o di uno stroboscopio, posso dirvi che nessun artista è più ininquadrabile di Dylan, l’apice della musica degli ultimi 45 anni, e che solo così era possibile avvicinarsi alla sua essenza dandone reale contenuto e dimensione, tramite questo rischiosissimo percorso intrapreso e condotto al meglio da Todd Haynes.

Non so se ho levato o aggiunto dubbi in merito alla visione del film, né se uscendo dal cinema saranno più quell* che ringrazieranno o s’incazzeranno con queste righe, di certo so che su quanto scritto non ho dubbi, anzi è cosa che sottolineo.


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