Scuto, le motivazioni della Cassazione Vicino alla mafia, ma servono più prove

Francesco Franzese doveva essere sentito anche nel processo d’appello all’imprenditore Sebastiano Scuto perché «prova decisiva». È questo uno dei passaggi chiave delle motivazioni con cui la suprema corte di Cassazione lo scorso giugno ha stabilito il rinvio a una nuova sezione della corte d’appello di Catania, annullando la condanna di secondo grado a 12 anni per associazione mafiosa all’ex numero uno di Aligrup spa. «Si è contravvenuto – si legge nella sentenza – ai principi affermati dalla Corte Europea per i diritti dell’uomo e dalla corte di cassazione». Una valutazione diversa tra corte d’appello e tribunale di primo grado che ha portato al ribaltamento del giudizio per quanto riguarda l’espansione verso la Sicilia occidentale dell’imprenditore etneo che, per il pg Gaetano Siscaro, sarebbe avvenuta in comune accordo sia con Giuseppe Grigoli, imprenditore marchiato Despar e prestanome di Matteo Messina Denaro, che con Vincenzo Milazzo, socio della K&K.

Franzese è oggi uno dei principali collaboratori di giustizia con un passato importante nelle fila di Cosa nostra. Ex reggente della famiglia mafiosa di Partanna-Mondello, venne arrestato nell’agosto 2007, decidendo immediatamente di passare dalla parte dello Stato. Le sue rivelazione furono infatti decisive per la cattura, avvenuta alla fine del 2007, di Sandro e Salvatore Lo Piccolo, i boss del mandamento palermitano di San Lorenzo che volevano riorganizzare la cupola di Cosa nostra sul modello del capo dei capi Salvatore Riina.

Nessun «vizio logico», secondo i giudici ermellini, per quanto riguarda la figura dell’imprenditore di San Giovanni La Punta già tratteggiata nel processo di secondo grado. «Correttamente – si legge in un passaggio centrale – i giudici hanno ritenuto che Sebastiano Scuto non fosse imprenditore vittima dell’associazione mafiosa» ma lo stesso «veniva a patti con il sodalizio rendendosi disponibile non solo a versare somme di denaro ma anche a reinvestire capitali e merce di provenienza illecita nelle proprie imprese». Una relazione, quella che si sarebbe sviluppata negli anni tra l’imprenditore e il clan mafioso dei Laudani, da cui lo stesso avrebbe tratto «indubbi vantaggi, consistiti nella protezione da parte del clan da rapine estorsioni ai propri punti vendita, nella agevolazione degli acquisti e nella apertura di supermercati». Un presunto connubio che avrebbe consentito al concessionario del marchio Despar di «imporsi in posizione dominante».

Giudicate infondate invece le impugnazioni degli avvocati Guido Ziccone e Franco Coppi per quanto riguarda le posizioni di Eugenio Sturiale e Giuseppe Laudani. I due collaboratori di giustizia sentiti a processo e noti accusatori di Scuto. Tuttavia la corte d’appello, presieduta dal giudice Ignazio Santangelo, secondo la cassazione «non ha ben spiegato come l’effettiva realizzazione di espansione verso la Sicilia occidentale [..] possa conciliarsi con la circostanza che, in uno dei pizzini di Provenzano, il capomafia affermasse in modo netto di non avere agganci con Catania».

Sebastiano Scuto era stato condannato in primo grado nell’aprile 2012 a quattro anni e otto mesi per partecipazione ad associazione mafiosa. Nei suoi confronti venne inoltre disposta la confisca del 15 per cento delle quote societarie. A distanza 12 mesi, nell’aprile 2013 la corte d’appello di Catania riformulò la sentenza infliggendo all’imprenditore originario di San Giovanni La Punta 12 anni di reclusione estendendo la confisca a tutti i beni societari. Per l’altro imputato, l’ex maresciallo dei carabinieri Orazio Castro, difeso dall’avvocato Tommaso Tamburino, veniva invece confermata l’assoluzione dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

 


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