«Quindici anni di precariato non bastano. Vogliamo chiamarla buona scuola?». Leonardo Alagna, come molti altri docenti, aspetta di conoscere quale sarà l’istituto dove insegnerà a partire da settembre. Lui è un insegnante di sostegno palermitano, che l’estate scorsa ha deciso di partecipare al piano di assunzioni proposto dal governo Renzi, inserito all’interno della riforma. «Dall’anno scorso sono un insegnante di ruolo – spiega il docente, iscritto ai Cobas e in prima fila contro la riforma – ma dietro a questo status si nascondono numerosi nodi che stanno venendo al pettine».
Alagna, nell’anno scolastico appena trascorso, ha insegnato in un istituto palermitano, in quanto sede provvisoria stabilita dall’Ufficio regionale scolastico, in attesa di conoscere cosa gli avrebbe riservato l’algoritmo del ministero in merito alla mobilità nazionale prevista dalla nuova legge. Una misura necessaria, sulla carta, a ripartire in maniera funzionale la forza lavoro in base alle esigenze del Paese. «Il governo ha scelto di mettere in un unico pentolone chi è stato precario per 15 anni e chi invece ha iniziato a lavorare da poco. Anzi, ha fatto di peggio».
Passato Ferragosto, il pensiero di migliaia di ragazzi va all’inizio del nuovo anno scolastico. Stavolta, però, a guardare con maggiore apprensione al ritorno in aula sono gli insegnanti, o perlomeno quelli interessati dalle modifiche apportate dalla legge nazionale 107/2015. Altrimenti conosciuta come Buona scuola. La riforma dell’insegnamento, dietro i proclami del presidente del Consiglio, Matteo Renzi – che più volte ha annunciato entusiasta la fine della «supplentite» per maestri e professori, con l’assunzione di quasi centomila persone su tutto il territorio nazionale – nasconde diverse criticità.
Il primo nodo, secondo Alagna e molti altri prof e sindacati, è quella che è stata definita «una deportazione»: migliaia di insegnanti destinati a cattedre del Nord senza possibilità di alternativa, se non quella di essere licenziati dallo Stato. Scenario accettabile per un giovane, meno per chi si ritrova già con una famiglia, creata magari nell’attesa che la graduatoria della propria città scorresse fino al fatidico traguardo dell’immissione in ruolo. L’opinione pubblica, intanto, si divide tra chi attacca la gestione della legge da parte del ministero dell’Istruzione – con tanto di riferimento a presunte falle nel cervellone elettronico che ha determinato l’assegnazione delle sedi per i neoassunti – e chi invece accusa di pigrizia gli insegnanti del Meridione che denunciano le storture.
Il professore palermitano, però, va oltre, segnalando quella che ritiene un’ulteriore ingiustizia: la decisione di privilegiare quanti nel recente passato hanno scelto di concorrere all’assunzione negli istituti del Nord, consapevoli di trovare graduatorie più facili da scalare. «È inaccettabile che un’immissione in ruolo nell’anno scolastico 2014-2015 dia oggi più privilegi rispetto a chi, come me, ha fatto anni di gavetta e ha punteggi molto più alti». Punteggi accumulati nel corso degli anni, ma che non sono valsi a garantire una precedenza nell’assegnazione delle sedi di lavoro. In più alcune regole sono cambiate in corsa. «Partecipare alla selezione ha significato concorrere con le condizioni in cui ogni docente si trovava nell’anno scolastico 2014-15, quando sono state aggiornate le graduatorie – continua -. Due anni fa, ho deciso di rimanere in quella palermitana perché forte di una seconda posizione che, con le regole antiche, mi avrebbe garantito in breve tempo l’assunzione. Non avevo fatto però i conti con la Buona scuola».
I valori in campo, infatti, sono stati rimescolati dalla decisione di favorire da una parte chi si trovava già di ruolo al 2015 – anche solo da un anno – e dall’altra chi aveva partecipato al concorso del 2012, l’ultimo nel campo dell’insegnamento. «Anche in quella circostanza decisi di non partecipare perché essendo su base regionale non mi sarebbe convenuto. Avrei rischiato di essere chiamato in un’altra provincia quando invece sapevo che l’assunzione per me sarebbe stata vicina nella mia città», sottolinea Alagna.
Tuttavia, per Alagna le cose potrebbero migliorare il prossimo mese. Grazie alla particolare situazione che caratterizza l’insegnamento di sostegno in Sicilia. «Con molta probabilità potrò chiedere l’assegnazione provvisoria in un istituto di Palermo facendo riferimento ai posti in deroga che sono stati riconosciuti dal Tar». Per posti in deroga si intendono i risultati giuridici ottenuti dalle istanze presentate dalle famiglie di alunni disabili, che hanno denunciato la carenza di servizi di assistenza ai propri figli. «Siamo arrivati a oltre 4.600 cattedre soltanto in Sicilia – specifica Alagna -. Un numero importante che dovrebbe garantire a me e ad altri di evitare il trasferimento, ma gioire per le conseguenze delle sentenze sarebbe sbagliato. È il sistema legislativo che dovrebbe garantire tutto questo».
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