Dall’agenda alla nota sull’amante: ecco gli scoop su Messina Denaro che Corona voleva vendere

«Uno scoop pazzesco». Il fiuto di Fabrizio Corona non sbagliava neanche questa volta. Perché il materiale sull’arresto del superlatitante di Cosa nostra Matteo Messina Denaro era abbastanza pazzesco. Così pazzesco che molti documenti non figuravano ancora tra gli atti di alcun processo e altri non erano nemmeno stati trasmessi ai magistrati. Oltre ai carabinieri che quei file li avevano raccolti e ordinati, insomma, in pochi o nessuno li aveva ancora visti. Il che faceva aumentare il loro valore – e il loro prezzo – in maniera considerevole. «Uno scoop pazzesco» che, però, non va in porto per gli scrupoli del giornalista che avrebbe dovuto acquistare – Moreno Pisto, direttore del quotidiano online Mow – e per la scarsa competenza della strana coppia formata dal carabiniere Luigi Pirollo, 48 anni, e dal consigliere comunale Giorgio Randazzo, 33 anni, entrambi di Mazara del Vallo.

E dire che il maresciallo Pirollo era stato scelto anche per partecipare ai blitz successivi alla cattura del superlatitante. Presente anche nella chat Whatsapp tra militari creata per coordinare le perquisizioni nei numerosi covi di Messina Denaro scoperti nel Trapanese. Un piano d’azione contenuto nel documento chiamato Intervento-estrai, tra quelli che Pirollo avrebbe voluto monetizzare vendendoli alla stampa. Solo una parte dei 768 file, ordinati in 14 cartelle, e scaricati dal sistema informatico dei carabinieri tra il 9 e il 10 febbraio 2023. Poco meno di un mese dopo l’arresto di Messina Denaro. Pirollo, però, non aveva fatto i conti con un dettaglio importante. Per accedere al sistema, infatti, aveva dovuto usare la sua password personale: sei numeri e due lettere che lo identificano e distinguono dai colleghi.

Dal sistema, il militare copia anche i verbali delle perquisizioni ad Andrea Bonafede, il geometra sessantenne che ha prestato l’identità a Messina Denaro. Poi le scansioni di alcuni documenti sequestrati nel covo di via San Giovanni a Campobello di Mazara, tra cui un file agenda con i contatti di Bonafede. E ancora i verbali delle testimonianze dei residenti vicino a un altro covo, quello di vicolo San Vito. Al corposo materiale da vendere a giornali e tv, si aggiungono poi una serie di atti di servizio: la relazione di un collega avvertito da una chiamata anonima circa un possibile favoreggiatore dell’allora latitante; le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia; i controlli su un dipendente comunale; una nota confidenziale su una presunta amante di Messina Denaro.

Informazione, quest’ultima, che è proprio del genere cercato in quel momento da Fabrizio Corona, interessato alla vita da playboy da sala d’aspetto – quella della clinica La Maddalena di Palermo – del superlatitante. Ed è qui che entra in scena il tramite tra il militare e il fotografo: il consigliere comunale di Mazara del Vallo Giorgio Randazzo. Che a Corona non rimane troppo impresso: intercettato, il fotografo si riferisce a lui come «un consigliere regionale di Castelvetrano». Sbagliando ruolo e città. Ma quello che importa davvero sono i file, proposti in un incontro a tre al giornalista Moreno Pisto, direttore di Mow. Che non solo registra l’appuntamento ma che, con la scusa di visionare il materiale aprendolo sul proprio computer tramite un penna usb, ne copia di nascosto il contenuto. Gratis. Un colpo pazzesco, parafrasando Corona, che non si concretizza per i timori di Pisto davanti a quel materiale troppo sensibile. Così il giornalista va a raccontare tutto ai carabinieri, consegnando anche i file.

Ai militari, a quel punto, basta poco: controllare chi è entrato nel sistema in quei giorni – e sono in due -, che documenti sono stati scaricati e paragonarli con quelli consegnanti da Pisto. Restringendo il campo a un solo nome: il maresciallo Luigi Pirollo. Collegato poi al consigliere Randazzo da un fitto scambio di contatti telefonici a partire dal 2019 e, notano i Carabinieri, dai rapporti delle rispettive mogli su Facebook. Per i due uomini, la procura aveva chiesto la misura cautelare in carcere – temendo la presenza di altri file non ancora piazzati -, rimodulata poi dal giudice negli arresti domiciliari. Una finale affatto pazzesco.


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