Scarface, inutilizzabili dichiarazioni D’Aquino Il pentito ha parlato dopo il limite dei sei mesi

«Sì, conosco William Cerbo». È questo l’inizio e la fine delle dichiarazioni del pentito catanese Gaetano D’Aquino, a proposito Tony Montana dei Carcagnusi. L’ex reggente della cosca dei Cappello era stato chiamato come testimone dell’accusa nel processo Scarface. L’indagine della procura etnea sul clan dei Mazzei e sui canali d’investimento che sarebbero stati collegati alla figura del loro capo: il boss Nuccio Mazzei. La grande attesa per quello che avrebbe potuto dire il pentito si è però trasformata in un sospiro di sollievo da parte di imputati e familiari. Una sorta di liberazione collegata alla decisione dei giudici che hanno accolto le opposizioni sollevate in aula dagli avvocati. D’Aquino avrebbe fornito dettagli sulla famiglia Cerbo, ma soltanto nel dicembre 2011. A distanza di quasi un anno dal settembre 2010, periodo in cui è entrato nel programma di protezione, e quindi oltre i sei mesi consentiti dalla legge ai pentiti per fornire tutte le dichiarazioni

Il filo conduttore dell’intera udienza diventa quindi l’attesa per la scelta dei togati. Familiari e imputati ingannano il tempo chiacchierando tra loro. Tra battute, lamentele e ricordi. «Ma come mai dopo due anni William è ancora dentro?», chiede uno dei presenti a una donna. «Perché sono dei bastardi», risponde lei senza giri di parole. Tra chi affolla l’aula c’è anche Agata Fonte,  titolare della ‘za Rosa. Noto ristorante di viale Africa che affianca il suo nome anche ad alcuni camion di panini. La donna è la moglie di Carmelo Panebianco. Imputato con un passato da socio in alcune aziende che, secondo l’accusa, avrebbero fatto riferimento alla galassia della cosca di Nuccio Mazzei. «Viviamo un incubo», spiega la donna ad alcuni militari della guardia di finanza, uno dei quali chiamato a testimoniare. La discussione prosegue anche con una battuta, quando la stessa spiega di cosa si occupa e domanda: «Siete miei clienti?».

Tra gli imputati presenti c’è pure Francesco Ivano Cerbo. Anche lui è ritenuto dall’accusa uno dei prestanome dei Carcagnusi. L’uomo, vestito con abiti eleganti e firmati, scarcerato dal tribunale del Riesame dopo il blitz del 2014 che portò a numerosi arresti, era tra i soci della New Jaragura srl insieme a Carmelo Panebianco. Società che gestiva la discoteca Bho –  poi rinominata Moon –  con la regia occulta, almeno secondo gli inquirenti, del boss Nuccio Mazzei. Nella mappa di aziende e locali ci sono anche la Meta Harmony srl e la discoteca 69Lune. Assente in aula il finanziere Francesco Caccamo: avrebbe favorito la scalata economica del clan grazie ad alcune notizie che dovevano rimanere segrete. Nel giugno 2012 avrebbe svelato di alcuni imminenti controlli a lidi, ristoranti e paninerie, consigliando ai titolari di effettuare in quei giorni gli scontrini fiscali. 

Prima di questo stop, D’Aquino aveva pronunciato il nome di Cerbo già in un altro processo. Quello ad Angelo Lombardo, ex parlamentare Mpa e fratello dell’ex presidente della Regione Raffaele. Il politico è imputato per concorso esterno alla mafia. Durante l’ultima udienza il pentito aveva etichettato Cerbo come «uno malato di malavita». Un ragazzo bollato come «vicino a me» che sarebbe stato in affari tra i box della fiera rionale di piazza Carlo Alberto, insieme al padre e a Gaetano D’Antona, detto Calimero. Il controverso immobiliarista ex marito della consigliera provinciale autonomista Vanessa D’Arrigo citato più volte da D’Aquino per le pressanti richieste elettorali, che avrebbe esercitato a favore di Angelo Lombardo.


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