Come ogni 13 dicembre scatta il bollino nero per i frequentatori di bar, rosticcerie e pasticcerie cittadine, prese d’assalto dalla famelica frenesia dei palermitani. Un chiodo fisso che monopolizza l’attenzione, fa rassegnare alle immancabili code e unisce gli stomaci
Santa Lucia, i palermitani e l’arancina-mania Ode semiseria di un’altra abbuffata annunciata
Alcuni considerano il giorno di Santa Lucia il vero Natale palermitano, almeno dal punto di vista culinario. Sarà perché alle nostre latitudini è più facile associare questa porzione di anno a mare e spiaggia rispetto a neve, renne e improbabili tizi vestiti di rosso con barba e pancia finta. Oppure perché il 13 dicembre, seppur non segnato di rosso sul calendario (certo, quest’anno cade di domenica, ma è solo un’eccezione), rimane l’ultimo baluardo delle feste tradizionali che non sia importato da altri luoghi (vedi la Festa dei Morti, soppiantata da Halloween). Fatto sta che «tutti i palermitani che si rispettino», chi più chi meno, tengono a onorare a tavola la Santa siracusana, tra il divieto di mangiare farinacei e l’overdose di cuccìa, gateau, panelle e soprattutto arancine (anche se vige la diffusa omertà sulla panatura di pangrattato, che pur sempre derivato del grano è). Non ce ne voglia il dolce tipico, derivato dal racconto della carestia e del bastimento di grano che salvò la città dalla fame, ma la sfera di riso dorata di frittura è (con tutto il rispetto per i compagni di tavola) la regina incontrastata della laica festività.
E quindi, per celebrarla al meglio, nei giorni precedenti la festa, a causa dell’arancina-mania Palermo in qualche modo si trasforma. Nelle famiglie c’è il compratore designato che redige la lista con le preferenze di tutti i parenti e, per allietare e allettare chi fa il conto alla rovescia dei giorni che mancano all’abbuffata (e non solo loro), i cartelloni e gli autobus si affollano di pubblicità che rimandano ad eventi a tema. Rosticcerie et similia – più o meno note – si sfidano a colpi di promozioni low cost (a proposito, quest’anno si parte da 0,80 centesimi), e alcuni punti vendita già noti al grande pubblico ricorrono alla fantasia per attirare i clienti, affiggendo poster dove l’arancina è tramutata nella protagonista di film famosi. Quest’anno grazie ad un casco nero diventa Darth Vader, un astronauta le gravita attorno avvisando Houston di un problema, e prende il posto degli zeri del numero di matricola dell’agente segreto James Bond.
E questo solo per strada. Nel web è un florilegio di banner che rimandano a questo o a quel sito o profilo social di spacciatori di riso, mentre i blogger pubblicano post o video che lodano o analizzano l’amore del palermitano per l’arancina. Altri ancora difendono i concittadini dalle critiche e dai tentativi campanilistico-grammaticali con i quali i cugini della Sicilia orientale vorrebbero imporre il loro punto di vista grettamente maschilista sul nome della prelibatezza d’ispirazione araba.
Il Comune, finalmente, cerca di sfruttare la cresta dell’onda patrocinando eventi culturali a sfondo turistico come l’arancina arabo-normanna al Cassaro (con riferimento al percorso Unesco), mentre i giornalisti per restare sul pezzo – da qualche anno a questa parte – arricchiscono praticamente tutte le testale on-line con almeno un articolo che riporta quante tonnellate di grano o di riso saranno trasformate e vendute da bar e locali vari in sole 24 ore. E giù classifiche su quale sia l’arancina migliore di Palermo.
Proprio il confronto tra le varie produzioni è un altro hot topic di questi giorni. Perché il palermitano non si limita a mangiare una caterva di arancine, ma sente lo spasmodico bisogno di comunicarlo urbi et orbi. In principio lo si faceva paragonando le proprie esperienze con amici e parenti, ora invece ci si trasforma in critici gourmet da tastiera e si spiega su internet quante arancine si sono mangiate, dove, di che tipo. Per non parlare di chi le viviseziona analizzando la struttura più o meno compatta, il tipo di riso e il tempo di cottura, la quantità di condimento, la frittura e la panatura.
E ovviamente, dove c’è incontro spesso c’è scontro. E quindi a cadenza annuale ci si schiera più o meno volontariamente – a seconda delle inclinazioni – con le diverse fazioni: i tradizionalisti, che mangiano solo arancine alla carne o al burro («perché quelli sono gli unici veri gusti»); gli innovatori che sperimentano accostamenti più esotici (salmone, pollo, verdure, kebab, pesce, funghi, nutella, pistacchio, fino ad alcune per coraggiosi come i frutti di mare), sull’onda di locali che sdoganano le arancine 365 giorni all’anno in miriadi di versioni diverse. Ma le divisioni sono anche tra i self made man che le mangiano solo se rigorosamente preparate e fritte in casa, e gli aficionados che si fanno chilometri per procurarsele dal loro rosticciere di fiducia, che magari frequentano con religiosa assiduità fin da quando andavano a scuola.
E poi esattamente come accade per una sonora sbronza, a stretto giro di posta arrivano immancabili le lacrime di coccodrillo, i commenti sui postumi da abbuffata e la richiesta o l’offerta di rimedi artigianali o farmaceutici. Ma segretamente si fa ripartire il countdown in attesa di ricominciare la giostra.