Salvador – 26 anni contro

Regia: Manuel Huerga
Soggetto: Francesc Escribano
Sceneggiatura: Lluìs Arcarazo
Cast: Daniel Bruhl, Tristàn Ulloa, Leonardo Sbaraglia, Leonor Watling
Fotografia: David Omedes, A.E.C.
Montaggio: Aixalà / Santy Boricòn
Musiche: Lluis Llach
Produzione: Jaune Roures
Distribuzione: Istituto Luce
Genere: Drammatico
Nazione: Spagna, 2006 

Al suo secondo lungometraggio, il regista spagnolo Manuel Huerga ha firmato un’opera dedicata alla storia di Salvador Puig Antich, ultimo condannato a morte del regime franchista.

Spagna, 1973. Salvador, membro del MIL, un’organizzazione armata contro il regime, viene catturato dalla polizia politica del Caudillo. Cercando di fuggire, durante un conflitto a fuoco, Salvador uccide un poliziotto e rimane gravemente ferito. Incarcerato, difeso dall’avvocato Oriol Arau, inizialmente del tutto ostile alle idee e al modo di vivere del suo assistito, Salvador lotterà fino alla fine per cercare di salvarsi dalla pena capitale, pur mantenendosi sempre fedele al credo per il quale era stato pronto ad armarsi. Ma il regime ha bisogno, all’indomani dell’uccisione di Carrero Blanco, capo del governo, di un capro espiatorio…

Un terrorista, Salvador, né più né meno; senza paura di prendere una pistola, di svaligiare una banca per finanziare la sua organizzazione, di fare fuoco tentando di scappare. Una vita da fuorilegge, da latitante, la sua. Una figura negativa, ma al tempo stesso umana, reale, vera. Il film è realistico, documentaristico, crudo. L’occhio di Huerga è obiettivo, cattivo nel non nascondere neanche un particolare della realtà, nel rifiutare la piena apologia di un personaggio che al tempo stesso può essere letto quale colpevole e quale martire del regime di Franco.

Il film è attraversato da una linea invisibile che lo divide in due: frenesia e attesa. La prima parte, dedicata ai ricordi del protagonista, alla sua lotta e alla sua fuga fino alla cattura, è veloce e concitata. Le scene si susseguono rapide, con il sottofondo della musica rock anni ’70, come in una continua fuga, analoga a quella del protagonista e dei suoi, dalla giustizia e dalla polizia politica. La seconda parte, invece, è lenta e riflessiva. Si attende che arrivi la fine: lo spettatore aspetta la fine del film, e Salvador aspetta che arrivi la fine della sua storia. La situazione è la stessa per entrambi. Le lentezza della prigionia, tra sigarette e paura, diventa la chiave del film: e, nell’ultimo quarto d’ora, sembra quasi di essere in quella stanza, con Salvador e le sue sorelle, ridendo e piangendo tra le sbarre della prigione, mentre il boia, a pochi metri, costruisce la garrota.

Il film è stato presentato al festival di Cannes del 2006 nella sezione “Un certain regard” e il bravo Daniel Bruhl, già visto in “Goodbye Lenin”, veste i panni del protagonista. L’attore ha interpretato il suo ruolo senza sconti, ha dato il proprio volto a un giovane di ideali e sensualità, di parole e di carne, facendone proprie vita e morte. Accanto a lui, Tristan Ulloa, nel ruolo dell’avvocato Arau, e Leonardo Sbaraglia in quelli di Jesus, guardia carceraria: per entrambi una buona prova, in due ruoli di uomini che, dall’incontro con Salvador, sono stati cambiati, e per sempre.

L’asciuttezza e la verità della storia colpiscono: “Salvador” è una storia di violenza e di ribellione, di un regime che si ripiega su sé stesso, di un ragazzo che cresce scegliendo di “essere contro”, pagando un prezzo alto, ma anche facendolo pagare agli altri, e questo il film – è il suo pregio maggiore – non lo fa mai dimenticare. Non si cerca il capolavoro registico, o il colpo di scena: si cerca la verità. E alla fine questa arriva, senza retorica, con lentezza, in una conclusione che ti chiude lo stomaco, e proprio per questo “Salvador” è un film che vale la pena di esser visto.


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