Saddam di Max Chicco

Nell’ ambito della meritoria  rassegna “ L’isola del cinema” ancora in corso a Ragusa (per maggiori dettagli rimando tutti ai forum della Facoltà di lingue e letterature straniere)  ho visto per STEP1, e per me naturalmente, “ Saddam” di Max Chicco.
Su uno schermo in cui la controluce la faceva da padrona – “ottimo” servigio per un film girato quasi interamente in ambiente buio- si è svolta la storia di Antonio Lo Russo e Mauro Loiacono, mercenari (con buona pace di chi si ostina a chiamare professionisti chi nella realtà fa il medesimo lavoro)  al soldo della Enterprises Srl operante in Iraq. A loro è affidato il compito di sorvegliare, per quarantotto ore, il prigioniero, ignoto, della cella cinquantuno/A.

In questa prigione sotterranea di Abu Ghraib i nostri novelli reziarii si confrontano e si scontrano: da un lato l’esperto Lo Russo, freddo cinico monolitico, dall’altro la “ matricola” Loiacono, impaurito, incerto, con qualche moto dell’anima baluginante qua e là( benchè abbia scelto quel lavoro solo per soldi). Come prima esperienza essere sbattutti nell’Iraq bombardato dagli americani a caccia di Saddam non è certo fra le cose che ti auguri la mattina appena sveglio. E se l’ignoto prigioniero fosse invece quel tristemente noto Saddam? Una foto e hai cancellato un bel po’ di problemi. Fra un risoluto Lo Russo, deciso  ad entrare nella cella e fare il proprio scoop,  e un  terrorizzato Loiacono, che invoca solo la fine del turno, ecco spuntare una troupe di giornalisti italiani…

Per quanto l’intento del regista sia quello di giocare con la finzione e la realtà, col vero e  col verosimile, mi sembra questo film un pastiche poco riuscito.

L’idea, peraltro ormai vecchia, da “ The Blair Witch Project” a “The Game”, passando da horror come “ My little eye” al programma “ Il protagonista” e perché no “ I soliti sospetti” e, per la prima inquadratura, “Saw l’enigmista”, credo potesse essere realizzata meglio: troppi clichés, protagonisti troppo caratterizzati, forzati (anche nella recitazione), estremizzati. Persino il proprietario della Enterprises è una macchietta d’antan: è italiano ma parla inglese, occhiali da sole in ambiente buio che fanno tanto “sintomatico mistero”, cappotto sulle spalle, gel (o forse brillantina) fra i capelli.
La storia ha poco spessore, ingiustificabile su più fronti: per ottenere quell’effetto spiazzante voluto dal regista, dovevamo, noi spettatori, poter credere che ciò che accadeva avesse un senso logico, e non raffazzonato.

Insomma, dovevamo e volevamo essere ingannati meglio nella prima parte.
Giocare con la finzione e la realtà significa, io credo, rendere la realtà incredibile, e questo è facile, e la finzione credibile, e questo è molto più difficile.
Non riesco proprio a vedere una provocazione intellettuale, ma furba e semmai intellettualoide.
Sono uscito dalla sala portando con me l’immagine della madre e della fidanzata sedute sul divano con la loro catatonia da tubo catotido: un tocco di ironia salvifica che da sola, e sola, vale il prezzo del biglietto.
Che non ho pagato: l’ingresso era gratuito.


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