Si fanno sempre più cupi gli sfoghi dell'artista alle prese con un amore scomparso, inghiottito come la sabbia dentro una clessidra. Un nuovo capitolo de Il funerale di Ludmilla Bengasi, la storia a puntate pubblicata su CTzen ogni due domeniche, dalla penna del nostro blogger Sergio Salamone e con le illustrazioni di Francesco Guarino Leggi le puntate precedenti
Romanzo a puntate, dodicesima parte La quinta lettera alla sabbia
Dodicesima parte
Quinta lettera alla sabbia
Sabbia e basta.
Adesso non sei che sabbia.
Chiamarti così, è un modo mansueto di ghermirti.
E’ qualcosa che non mi appartiene.
Sabbia e basta.
L’imboccatura s’è ristretta: ciò che era in alto precipita in basso.
I progetti, ormai scheggiati, si depositano in fondo.
Ora è irriducibile il morire.
Si ha voglia di fischiare.
Cadere: questo è il senso.
Non mi rivolgo più a te. Sabbia.
La clessidra è piena in giovinezza.
La sua parte inferiore è aria.
Aria e proiezioni.
Ancora nessun detrito.
Un fiume nuovo che non precipita a valle.
Un fiume refrattario alle leggi della fisica.
Straordinario.
Ma non si può fare a meno di andare giù.
Ce lo dicono i padri.
Noi ubbidiamo.
Uomo e clessidra.
Vetro su carne.
Schegge su sogni.
Movimento discendente.
Paura dell’abisso.
Sabbia.
Basta quel piccolo foro che chiamiamo tempo.
Ad ogni istante un granello.
Ad ogni attimo una piccola morte.
Sono stato bellissimo.
La sabbia si vedeva tra gli occhi.
Conservava velieri.
I venti arbitravano gli alberi.
Ora sono solo pupilla.
Le grandi idee sono andate.
Non sono riuscito a salutarle.
Sabbia.
Sentimenti che smottano.
Amore a scomparsa.
La testa vuota.
Tu non esisti.
Non sei mai esistita.
Il viaggio che ho fatto non l’ho compiuto.
Le valigie che ho riempito sono vuote.
Le chiavi degli alberghi sono quelle di casa.
I sentimenti deragliano quando vanno le stagioni.
Non vedi più l’orizzonte pieno.
L’abbaiare basso di un cane.
Lo scodinzolio del topo avvelenato.
La poca schiuma che lascia un alito di mare.
La carogna sfatta dell’avvenire.
Mi dimentico di avere delle linee nella mano.
Ciò che è stato mi acceca.
Adesso sono in questo disperdermi.
Mi sento scivolare ai piedi.
Mi assopisco. La schiena s’incurva.
L’alito si fa cattivo.
Caccio di bocca frasi senza treni, navi, aerei.
Prima quello che dicevo copriva il sole.
Lambiva le terre di lontano.
Spaventava i giganti e i gatti in amore.
Prima il tempo era il mio gioco.
Ora non riesco più a giocarlo.
Entravo in stanze di luce
e più di una donna mi osservava
come un covo di promesse.
Adesso sono una spelonca di vipere.
Qualcosa che si è seccato alla sera;
senza lo splendore del tramonto.
Adesso vado.
Comincio a legarmi alla terra.
Di pietra il cuore, di pietra gli occhi,
di pietra l’avventura: un mausoleo.
La tagliola per chi vuol fuggire.
Il desiderio incastrato al nulla.
Sono invecchiato di colpo.
Sabbia andata.
Sabbia abbandonata.
Se solo mi sentissi gridare i tuoi mille nomi
(il tuo non l’ho mai conosciuto),
forse risponderesti al tuo.
O forse non lo hai mai avuto.
Il nome è un segno che non disperde.
Uomo e clessidra.
Come corrono il giorno, il sangue, le voci!
Un miraggio, l’esistenza.
Anzi peggio: un frantoio.
Piangerò da solo i miei ultimi istanti.