Riforma elettorale in Sicilia, chi la vorrebbe e chi no. Perché se approvata avrebbe effetti devastanti sul centrodestra

Nella politica siciliana al momento l’attenzione è catalizzata dalla corsa verso le elezioni provinciali. Ci sarebbe stato tutto il tempo di prepararsi per il voto di secondo livello, ma fino all’ultimo si è cercato inutilmente di riportare i cittadini al voto anziché sindaci e amministratori locali, pur sapendo che era strada che mai sarebbe potuta spuntare. C’è però un’altra questione elettorale che cova sotto le ceneri e che tra qualche mese rischia di deflagrare come una bomba: quella che riguarda la riforma elettorale per le prossime elezioni regionali. Al momento è solo un’idea, un pourparler, non c’è niente nero su bianco, men che meno una proposta di legge, ma ci sarà.

L’esca l’ha lanciata Nuccio Di Paola, vicepresidente dell’Assemblea regionale siciliana (Ars) e referente del Movimento 5 stelle in Sicilia, che ha subito trovato sponda utile in Ismaele La Vardera. Ma il punto non è questo: non si tratterebbe infatti della classica proposta di opposizione, perché l’idea di Di Paola e soci stuzzica e non poco anche alcune parti della maggioranza. E non parti qualsiasi, ma Fratelli d’Italia, entità che all’interno della coalizione di Renato Schifani ha più e più volte dimostrato di sapere ottenere ciò che vuole quando punta i piedi. E gli effetti potrebbero in potenza essere devastanti. La riforma elettorale, infatti, così come sarebbe stata concepita punterebbe soprattutto su un aspetto: l’abolizione del listino collegato al presidente, cioè una lista di nomi che vengono eletti in automatico, in determinate condizioni, insieme al nuovo presidente della Regione.

Ora come ora il premio di listino scatta nel momento in cui, terminato lo scrutinio, la coalizione vincente non dovesse raggiungere i 42 seggi su 70, numero necessario per avere la maggioranza in sala d’Ercole; cosa che fino a ora si è sempre verificata, anche nell’ultima tornata elettorale, che ha visto trionfare Renato Schifani e i suoi. In questo caso, dunque, vengono eletti dal listino bloccato tanti deputati quanti ne servono alla maggioranza per raggiungere i 42 seggi. E se alle ultime elezioni, giusto per fare qualche nome, la corsia preferenziale del listino bloccato è stata un fatto di mero prestigio per Gaetano Galvagno – visto che il futuro presidente dell’Ars sarebbe comunque stato eletto in quanto uno dei più votati in assoluto del suo partito – lo stesso non si può dire di Serafina Marchetta, inserita nel listino in quota Udc (ed eletta nonostante gli appena 11 voti ricevuti). E qui sta proprio il punto.

Ufficialmente infatti la proposta di Di Paola nascerebbe per dare maggiore rappresentanza territoriale ai collegi più piccoli, come Enna o Agrigento, evitando eccessivi blocchi di deputati da Palermo, Catania e Messina. Tuttavia, in un contesto come quello del centrodestra attuale, questo andrebbe di fatto a scapito dei partiti più piccoli, come già visto con l’Udc, appunto, ma anche con sigle come Democrazia cristiana e Noi Moderati, che non solo perderebbero la certezza di avere almeno un deputato in parlamento, ma rischierebbero addirittura di non entrare nemmeno a palazzo dei Normanni, visto che per i partiti meno forti il listino aveva costituito una sorta di assicurazione. Ovviamente questo non potrà che scatenare l’ennesima faida fratricida a tutto campo nell’alveo del centrodestra, che non è affatto nuovo a crisi del genere. Al momento siamo ancora nel mondo fatato delle ipotesi, ma una notizia del genere avrebbe il peso per mettere a dura prova i legami di coalizione.

E le ipotesi potrebbero diventare presto realtà, visto che perché la riforma possa essere efficace ed entrare in vigore in tempi utili dovrebbe arrivare sui banchi dell’Ars quanto meno subito dopo la pausa estiva, per avere tutto il tempo di organizzarsi a dovere.


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