Ricominciare: l’informazione e la speranza

“C’è un libro che ti aspetta. L’ho lasciato nell’armadio della redazione”. È la direttora al telefono. Io a Milano, lei di nuovo a Catania per qualche giorno di vacanza. La redazione è quella di Step1, la piccola celletta numero 24 del monastero dei Benedettini che ospita il periodico telematico d’informazione della facoltà di Lingue. Il libro in questione è il volume voluto da Andrea Vecchio.

Lo recupero durante le vacanze di Pasqua. Ho poco tempo, ma alla riunione di redazione non ci rinuncio. Quella copertina arancione arriva in un momento strano. Tante riflessioni, critiche e pessimismo che fanno il paio con altre voci catanesi incontrate a Milano: “Un consiglio? Non tornare più a Catania. Ormai il passo decisivo l’hai fatto, non guardare indietro”. Parole sentite più di una volta in questi primi mesi alla scuola di giornalismo che sto frequentando. Me le hanno ripetute in tanti, qualcuno con gli occhi lucidi, qualcun altro con rassegnazione: una giornalista di Catania che lavora nella scuola, un ottantenne professore, pure lui emigrato nel capoluogo lombardo parecchi decenni fa, un collega scappato dalla Sicilia appena finito il liceo.

Potrei anche starli ad ascoltare se, tre anni fa, non avessi scelto di entrare in quell’aula 24 per far parte del progetto Step1. Potrei tranquillamente dar loro ragione se non avessi conosciuto Gianfranco Faillaci, coordinatore della redazione. Potrei scordarmi di Catania e concentrarmi su Milano, sulle difficoltà del giornalismo, sulle sterili polemiche della politica italiana, su “quello che la gente vuole leggere”, sulle mie ambizioni professionali, se solo non fossi caduto dentro un sogno collettivo. Fare informazione nella mia città, essere giornalista a Catania.

Qualcuno potrà obiettare che regalare illusioni non costa nulla e rischia di diventare pericoloso per il nostro futuro. Io penso che nella redazione di Step1 ho imparato a fuggire quello che da più parti viene indicato come uno dei problemi centrali di Catania. Ho imparato quel senso della possibilità che il prof Andronico, nella sua risposta ad Andrea Vecchio, contrappone al senso della realtà tanto comune, quanto sterile. Ho imparato la speranza e il rifiuto di vivere in un eterno presente, in cui il futuro assomigli al passato, in un grigio miscuglio amalgamato da clientelismo, illegalità, deresponsabilità.

Se la mancanza del senso della possibilità è uno degli elementi che sta alla base della decadenza della città, allora posso dire “uno, dieci, cento, mille Step1”.

Ma la possibilità di che cosa? Di creare uno spazio dell’informazione nuovo. Non controinformazione, che rischia di rimanere sempre chiusa in ambiti ristretti. Ma semplicemente informazione libera, in grado di abituare i cittadini alla libertà, di formarli con l’idea che i diritti non si elemosinano ma si pretendono. Che non serve e non conviene essere clienti a vita. Penso che questo sia uno dei compiti del giornalismo, il più urgente per chi fa informazione ai piedi dell’Etna.

Resta un dato: nessuna città italiana, grande e importante come Catania, ha un solo giornale. Non esiste una free press che copra in modo capillare la nostra città. E chi sostiene che basta e avanza ‘u giunnali’, che non c’è spazio per altro, è in malafede. Negli anni ‘50, quando il centro storico veniva violentato dall’ultimo grande sventramento della storia d’Italia, in città si leggevano cinque quotidiani locali. Eppure oggi nessuno, né istituzione (a cominciare dall’Università), né imprenditore, né altro privato ha il coraggio di investire sull’informazione a Catania.

Bisognerebbe spargere e seminare per la città il senso della possibilità. A cominciare dai bambini, perché io alle generazioni avanti con gli anni non credo molto. Solo i bambini e i giovani possono cambiare Catania. Lo ha capito Antonio Presti, che per realizzare la Porta della Bellezza ha voluto coinvolgere centinaia di bambini delle scuole di Librino. Penso sia l’evento non solo più bello, ma anche più utile realizzato a Catania negli ultimi anni. Quei bambini saranno i custodi delle 9 mila mattonelle che compongono l’opera, perché sono stati loro a realizzarle, sono loro gli artisti che hanno arricchito la loro città. E quei bambini cresceranno e diventeranno ragazzi, adolescenti, adulti e conserveranno dentro di loro il rispetto per una cosa pubblica perché di tutti, ma anche privata perché appartiene ad ognuno di loro. Questo significa creare reti tra i cittadini, e tra i cittadini e il territorio. Significa responsabilizzare una generazione, cominciare ad instillare il principio che la città è ‘cosa propria’.

Il passo successivo, probabilmente, sarebbe premiare la classe politica soltanto in base ai meriti acquisiti nell’amministrazione della città, e pretendere dalle classi dirigenti un impegno che non miri solo all’arricchimento personale o all’autoglorificazione.

Domani ho un aereo che mi riporta a Milano. Spero non per sempre, non per molto.

 

Salvo Catalano ha 23 anni e si è laureato presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Catania. Giornalista praticante, frequenta la Scuola di Giornalismo dell’Università Cattolica di Milano. Redattore di Step1 dal 2007.


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