Per dialogare con gli studenti occorrerebbe istituire "una sorta di garante dei diritti delle giovani generazioni che avesse il potere di intervenire contro i provvedimenti miopi che consolidano gli (iniqui) assetti vigenti": è la proposta che lanciano, dalle colonne de Il Corriere della Sera, il giornalista Dario Di Vico e Maurizio Ferrera, ordinario di Scienza Politica dell'Università Statale di Milano
Qui ci vuole un ministero del Futuro
Per impostare un vero dialogo con gli studenti che in questi giorni manifestano nelle scuole e per le strade d’Italia bisognerebbe davvero dotarsi, come ha suggerito Mario Monti, di «un ministro del Futuro». Una sorta di garante dei diritti delle giovani generazioni che nella compagine governativa avesse il potere di intervenire contro i provvedimenti miopi che consolidano gli (iniqui) assetti vigenti. E che avesse la-lungimiranza di introdurre nell’agenda delle scelte del Paese una serie di azioni di tutela degli outsider.
Ma oltre all’alto valore simbolico di un’opzione talmente innovativa, d nostro ipotetico ministro da dove inizierebbe a realizzare i1 suo mandato? E come potrebbe onorare Il gravoso impegno assunto in presenza di un quadro di finanza pubblica che definire restrittivo è quantomeno eufemistico? I capitoli sui quali ragionare, anche solo per una simulazione di politiche a favore delle nuove generazioni, sono sostanzialmente tre: istruzione, lavoro e welfare. Appare ormai evidente come la strategia dei tagli lineari abbia mascherato una doppia incapacità, di scelta e di decisione, e abbia però generato in un corpo vivo come quello della scuola reazioni così aspre che non erano state messe in conto. La scuola e l’università restano nell’immaginario dei nostri ragazzi í1 passaporto verso il futuro e la loro menomazione, anche solo in termini di risorse, è stata percepita come una rottamazione di chance. Come se si fosse deciso di abbandonare un’intera generazione al proprio ingrato destino.
Ma una società che aspira a restare nel novero dei grandi Paesi industriali deve riuscire a finanziare sia il diritto allo studio sia un’offerta formativa di qualità e in prospettiva deve darsi l’obiettivo di incrementare la spesa per l’istruzione fino ad allinearla a quella dei partner Ue (in soldoni un punto in più di Pil, da raggiungere magari in io anni). Se però oggi. lo Stato non ce la fa è troppo chiedersi se le fondazioni di origine bancaria, le banche e le imprese possono farsi parzialmente carico di tenere in vita questa fiammella? In Paesi come la Francia, la Gran Bretagna o la Germania l’apporto del mondo delle imprese ai settori della ricerca e sviluppo (compresi i contributi alle università) è più del doppio di quello italiano. In campo sindacale sono in corso diversi esperimenti di welfare aziendale e laddove è stato possibile lo scambio negoziale è stato esteso al diritto allo studio. Libri gratis e borse di studio sono le forme ricorrenti. Non si può pensare di generalizzare nella contrattazione sindacale questi obiettivi e renderli elemento permanente di una nuova solidarietà inter-generazionale? Non dovrebbe essere difficile e l’esito delle sperimentazioni in corso incoraggia a perseverare. Ma non è tutto.
Spulciando nel curriculum di manager e grand commis che oggi hanno tra i 60 e i 70 anni spesso spuntano specializzazioni all’estero conseguite tramite l’aggiudicazione di borse di studio messe in palio da grandi banche. Non si può riprendere e rafforzare questa tradizione, magari legandola alla presenza degli istituti di credito sul territorio? E, sempre sulla base di esperienze che sono in fieri e contando sull’impegno delle fondazioni, potrebbero essere avviati programmi di student housing, realizzazione di abitazioni a basso prezzo per giovani. Una via per rendere ancora più tangibili gli impegni per il diritto allo studio e l’incentivazione del merito e della mobilità territoriale. I tagli indiscriminati avranno come effetto anche la marcata compressione per i prossimi anni della ricerca condotta in ambito universitario. Una discontinuità che non può non preoccupare anche il mondo delle imprese e spingerle a una riflessione più meditata circa i rapporti con l’accademia. Bisogna superare le incomprensioni del passato e acquisire una log.- ca sistemica È in gioco una porzione significativa della capacità di produrre innovazione da parte di un Paese che ne ha necessità per reggere la concorrenza dei nuovi big del manifatturiero, Cina in primis. Una retrocessione verrebbe pagata da tutti, di una ripartenza ne godrebbero sia le imprese sia quei settori del mondo universitario che magari non amano il mercato e ne temono l’invasività. Ma solo se si rilancia la ricerca universitaria diventa meno aleatorio proporre regole più trasparenti e flessibili al reclutamento del personale. La maggioranza dei ricercatori non chiede il posto garantito a vita, ma chance di stabilizzaziòne e avanzamento in base al merito, sulla base di concorsi a cadenza certa e regolare.
Nel metter mano al capitolo lavoro il nostro ministro del Futuro dovrebbe innanzitutto evitare che nella transizione dalla scuola all’impiego molti giovani si perdano, restino in mezzo al guado e in larga parte anneghino nelle difficoltà e nella invisibilità della loro condizione. Ciò riguarda in primo luogo lo zoccolo duro dei laureati che rimangono a spasso, quelli in possesso delle cosiddette lauree deboli (comunicazione, scienze umane e sociali ecc.). Anche nelle interviste di questi giorni che si sono potute leggere sui giornali o ascoltare in tv è apparso chiaro che la componente più angosciata del fronte studentesco appartiene a questa categoria, ai laureati che non si riescono a proporre sul mercato del lavoro in altra maniera che non sia il «qualcosismo». Un raffronto internazionale ci suggerisce che anche in altri Paesi simili al nostro esiste un forte stock di laureati in discipline analoghe, nei confronti dei quali però ci sono minori pregiudizi tanto che il sistema delle imprese li accoglie con maggiore benevolenza. Da noi prima si è deciso di investire sulle lauree triennali e poi le si è immediatamente svalutate. Non è affatto vero che con la formula 3 più 2 le cose siano peggiorate mentre sicuramente si è affermata nella società italiana e nelle imprese l’idea di un’eccessiva leggerezza dei nuovi titoli di studio. Prima di rottamare tutti i giovani laureati in queste discipline sarebbe il caso di compiere una ricognizione meno frettolosa.
Per quanto riguarda invece la stabilizzazione dei precari, la cui esigenza è stata sottolineata di recente anche dal governatore della Banca d’Italia, il ministro del Futuro do- vrebbe vegliare sull’iter parlamentare di quei provvedimenti già in corso di valutazione e che si propongono di porre rimedio in maniera sostenibile all’instabilità lavorativa sine die. Più in generale la transizione scuola-lavoro va governata con polso sicuro rafforzando i servizi di accompagnamento all’inserimento lavorativo da parte delle università e non lasciando queste facilitazioni prerogativa delle sole realtà d’eccellenza Per evitare comunque che ci si trovi con evidenti disallineamenti tra domanda e offerta di lavoro bisogna contrastare la tendenza alla licealinnazione e riqualificare i percorsi formativi degli istituti tecnici e delle scuole professionali. Non dobbiamo dimenticare che la straordinaria forza dell’industria tedesca è legata anche alla qualità di questo tipo di scuole.
Resta il welfare. L’obiettivo di medio periodo è sicuramente la riforma degli ammortizzatori sociali i cui costi possono essere governati magari riordinando la jungla delle innumerevoli agevolazioni fiscali esistenti. Nel frattempo va eliminata una palese stortura che riguarda i parasubordinati, termine burocratico che raggruppa precari e partite Iva. Oggi pagano i loro contributi alla gestione separata delllnps in ragione superiore al 2696. Avendo il governo rinunciato all’operazione «busta arancione», che avrebbe consentito agli iscritti di monitorare la loro situazione e di prefigurare anche l’ammontare delle proprie (future) pensioni, si va avanti al buio. Ma è facile pensare che molti di loro arriveranno a percepire alla fine della loro carriera lavorativa. assegni vicini ai 50o euro. Come impedirlo? Innanzitutto correggendo una stortura. Oggi i contributi versati da precari e partite Iva (circa sei miliardi di euro all’anno) vanno a ripianare il deficit di altri comparii del lavoro autonomo come le pensioni per commercianti e artigiani che si stanno ritirando in questi anni e godono dei privilegi del vecchio sistema retributivo. È evidente che siamo in presenza di una palese iniquità: perché far pagare proprio ai precari il sostegno a queste categorie? Perché non utilizzare gli avanzi della loro gestione per finanziare Il welfare che non c’è? Le modalità operative per farlo sono tante, si tratta di scegliere. Di sicuro il nostro ministro del Futuro si batterà perché avvenga.