Quando la scuola imita le aziende

I grembiulini per tutti alle elementari, il sette in condotta per arginare i bulli, l’abbandono dei giudizi, spesso prestampati, per tornare alla sincerità del voto: sono scelte che si possono tranquillamente condividere, che forse avrebbe dovuto fare il governo precedente e chissà perché non ha fatto. Ma la questione di fondo della scarsa autorevolezza culturale della scuola temo rimanga irrisolta, e credo anche di sapere quale sia la sua doppia radice. Da un lato, come è ormai chiaro a tutti, l’incidenza crescente dei valori sociali nella scuola: fu una battaglia degli studenti più aperti e generosi, i quali capirono che non bastavano Carducci e Rosmini per affrontare le straordinarie contraddizioni del mondo, che bisognava necessariamente portare nuovi autori e nuovi temi dentro un sapere accademico e ammuffito. Ma una volta spalancata quella porta, non c’è stata più la possibilità di frenare gli ospiti: e così oggi la scuola, visto che il tempo scorre e le cose cambiano, si ritrova a subire e a patire i nuovi valori – denaro, successo, aggressività, narcisismo – e non sa più in che modo convincere gli studenti che solo attraverso l’ applicazione, il sacrificio, la concentrazione, la solitudine potranno imparare qualcosa di utile per loro stessi e per la società. Il mondo peggiore è entrato e la fa da padrone.

Ma su questo già molto è stato scritto ed è un problema ormai così evidente che quasi non serve ragionarci sopra. E’ lo stato delle cose, la piaga in cui il dito sta girando da molto e invano. L’altro aspetto che invece non è stato ancora sufficientemente preso in considerazione è forse ancora più fondante, o più franante: mi riferisco all’autonomia scolastica, che ancora passa come una conquista meravigliosa e che invece a mio avviso ha ridotto le scuole a negozietti con la merce sempre in saldo, con le svendite costanti e la qualità ridotta al minimo. Prima tutte le scuole dipendevano allo stesso modo dal ministero, avevano programmi unificati, facevano scelte coerenti. L’idea di fondo era che i ragazzi dovevano essere preparati ed educati secondo linee comuni, secondo i valori basilari della conoscenza e dell’ uguaglianza. Da Ragusa al Brennero si condividevano metodi e aspettative, in un orizzonte democratico e popolare, magari un po’ noioso ma rassicurante per chi insegnava e per chi imparava. A un certo punto però si è deciso che ogni preside e ogni collegio dei docenti potevano gestire come meglio credevano le offerte e i percorsi formativi. Ogni scuola oggi elabora dunque il suo Pof, cioè il Piano di Offerta Formativa, e i ragazzi si iscrivono a questo o a quell’ istituto leggendo depliant quanto più possibile accattivanti. Viene proposto il corso di teatro e quello di ping pong, la settimana corta e la settimana bianca, il cineforum e la gita fuori porta. La vetrina deve essere splendida splendente, altrimenti si rischia che i potenziali clienti non vengano dentro neppure a dare un’ occhiata. Chi perde studenti, perde quattrini: il budget si assottiglia, la scuola arranca e rischia, se continua l’emorragia, di finire accorpata con qualche altra che invece ha la fila davanti al portone. Anche per questo, soprattutto per questo, a fine anno le bocciature sono ridotte al minimo: una scuola che promuove significa una scuola che va bene, che mantiene i suoi iscritti i quali, arcicontenti, ne parleranno bene in giro. Insomma, l’autonomia scolastica ha messo le nostre scuole in competizione tra di loro, esattamente come fa il libero mercato: ma il risultato non è stato un miglioramento dell’ istruzione, così come la moltiplicazione delle televisioni non ha reso i programmi migliori e gli italiani più svegli e più colti. I presidi ormai si sono elevati – o abbassati – al livello di manager, difficilmente tengono d’ occhio l’andamento generale degli studenti, cosa succede in classe, quali sono i problemi dei professori, tanto sono presi dalla preoccupazione di far quadrare i conti e non perdere la clientela. E i clienti, si sa, hanno sempre ragione, quindi è inutile, anzi nocivo, difendere i professori-commessi dell’emporio, che devono soltanto soddisfare le aspettative dei giovani seduti al di là del bancone. Pardon, volevo dire della cattedra.

Probabilmente in qualche scuola virtuosa questa raggiunta autonomia ha prodotto risultati eccezionali, ma direi che nell’ insieme ha soltanto inoculato il virus dell’inadeguatezza nei professori, ha depotenziato il loro insegnamento, costringendoli a retrocedere al ruolo di intrattenitori, di venditori di pentole, di spaventati amiconi dei ragazzi. Non credo si possa tornare indietro, ma credo che andare avanti in questa direzione significhi soltanto rendere le nostre scuole simili ad aziendine traballanti, pronte a tutto pur di non perdere la loro misera quota di mercato.

 

Marco Lodoli è uno scrittore e giornalista italiano.
E’ insegnante di Lettere in un istituto professionale della periferia di Roma.


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