Provenzano, il rimpianto del magistrato Nico Gozzo «Quando manifestò possibile volontà di collaborare»

Quel che resta dopo la morte del boss di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano, sono «due rimpianti». Ne è convinto Nico Gozzo, sostituto procuratore a Palermo, che affida ai social una lunga riflessione su uno dei protagonisti degli ultimi 50 anni di storia siciliana. Provenzano – scrive Gozzo – era «un uomo di mafia. Un Capo. Una persona che ha commesso tanti omicidi e traffici illeciti, e tante altre cose che non basterebbe questa pagina». «Non lo conoscevo – precisa il magistrato -. Non gioisco, non l’ho mai fatto, mi pare barbaro. Lo facevano i mafiosi dopo gli omicidi eccellenti e le stragi. E io voglio essere diverso». 

Eppure, ecco riaffiorare due rimpianti: «Mi rimarrà sempre il dubbio – ammette – che quel 31 maggio 2013 tutto potesse andare diversamente. Quando, cioè, Provenzano espresse timidamente, e già provato psichicamente, la possibile volontà di collaborare alla Procura di Palermo. Che era andata a sentirlo senza noi di Caltanissetta, nonostante diversamente si fosse deciso. Peccato per una fuga di notizie che immediatamente accadde, e che produsse l’inaridimento della possibile importantissima fonte di dichiarazioni. Senza contare che poi accaddero una serie di eventi, di cui si è occupata la stampa». Il riferimento di Gozzo è alla foto apparsa su diversi quotidiani che ritraeva il boss nella sua cella con un ematoma sulla testa.

Il secondo rimpianto riguarda invece il dibattito aperto da anni tra i giustizialisti che hanno sostenuto il fine pena mai, e chi invece, davanti all’immagine di un anziano evidentemente affetto da demenza senile, avrebbe ritenuto più dignitoso che in uno Stato di diritto il boss finisse i suoi giorni nella sua casa. «In questo momento – sostiene Gozzo – mi sento pure di dire che lo Stato italiano avrebbe potuto, in questi ultimi anni, marcare la propria differenza. Far sentire, nel momento in cui Provenzano non ci stava più con la testa, la differenza tra uno stato di diritto, che applica le norme, anche nei confronti di un mafioso – e dunque, se uno non ragiona e non comunica, non può essere pericoloso – e le belve di Cosa Nostra, che le regole le fanno solo a loro uso e consumo, calpestando sempre la vita umana. Invece  – prosegue – si è voluto continuare ad applicare il 41 bis a un uomo già morto cerebralmente, da tempo. Con ciò facendo nascere l’idea, in alcuni, che la giustizia possa essere confusa con la vendetta. O che il diritto non è uguale per tutti». Il magistrato non ha dubbi: «Ciò, per me, è inaccettabile».


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Il sostituto procuratore di Palermo ha affidato ai social una riflessione su ciò che si sarebbe potuto fare negli ultimi anni di vita del boss di Cosa nostra, morto oggi dopo una lunga - e per certi aspetti discussa - detenzione. Per il pm lo Stato ha perso l'occasione di marcare la differenza rispetto a Cosa Nostra

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